One
shot -
I miei passi sulla sabbia
Pov Daniel Feuerriegel
Arrivo davanti a casa
tua, direttamente da Los Angeles e quasi non ho chiuso occhio.
Vedo tua madre, mamasita, in veranda, con il cesto dei
panni appena lavati, posso sentirne il profumo, chiudo gli occhi.
Li riapro,
incrociando quelli di tuo nonno, che arride alla mia apparizione, canzonandomi,
come se fossi un redivivo.
Mi abbraccia forte – “Ciao
Dan … Bentornato”
“Salve, la trovo bene”
– replico sorridendo.
E’ un uomo saggio e
paziente.
Certo non come me.
“Mio nipote arriva
tra poco … Cioè quello per il quale sei qui” – ride ancora, bonario.
Oltre a Pana, in
effetti, ce ne sono parecchi, di ogni età.
Sento il rumore di un
quad arrivare da dietro le altre case.
Sto parlando con tua
madre, che mi accarezza il volto e sento i solchi delle sue mani, comunque
morbide, che tu ricordavi sempre sul set, come il gesto migliore ad ogni tuo
risveglio, Pana.
Sento il tuo sorriso
alle mie spalle.
“Dan!”
La tua stanza sembra
più piccola.
“E’ per via del
letto, l’ho cambiato” – sorridi, sistemando la mia valigia – “Dormi con me,
ovvio”
Ovvio …
In effetti non c’è
mai stato nulla definibile così, tra noi.
E’ stato buffo,
ripensandoci: un sacco di cose poco ovvie, sono divenute naturali, per poi
spezzarsi.
Senza rancori.
“Se ti fermi un
attimo Pana …”
Sembri frenetico ed
entrambi siamo nervosi.
“Cosa” – accenni,
ritrovandoti davanti a me.
Ti abbraccio, con
accortezza, anche se sei solido, nonostante la differenza di statura che ci
separa.
Ora siamo saldati – “Questo
…” – mormoro, perché è diverso da quello nel tuo giardino, uno stringersi
amichevole per la mia visita, che adesso qui è totalmente diverso.
E’ nostro, insomma.
“Sei dimagrito Daniel
…” – dici piano.
“Qualche chilo”
“Li ho presi io …
Potevi passarmi dei muscoli” – scherzi, ma senza staccarti.
Ora ci guardiamo.
“Il
pranzo è pronto, scendete!”
E’ la voce di tuo
zio, sa già di birra, anche se da qui non possiamo sentirla sul serio.
Scivoli via.
Alla vostra tavola
vige un’allegra confusione, la rammento bene.
Mamasita mi riempie
il piatto ed io resto seduto, tra le tue risa e quelle di tuo padre.
Mi prende il polso,
improvviso – “Allora Dan, ci porterai una moglie americana?”
Pana avvampa, fa
finta di bere, ma deglutisce a vuoto.
Credo di essere dello
stesso colore.
“No … Non ho tempo,
devo trovare un lavoro per mantenermi, i soldi finiscono in fretta”
I soldi, già.
Quelli della serie di
Spartacus: abbiamo deciso di spenderli in maniera differente, Pana ed io.
Lui producendo una
band musicale, di alcuni amici, a cui io non piaccio e che non mi piacciono,
Pana lo sa.
Ed io investendo su
me stesso, con questo trasloco a Los Angeles, dove il mio agente fissa
appuntamenti a raffica, per provini non sempre edificanti.
Ci sono abituato, ma
sembra di essere agli esordi: la gavetta credevo di averla già fatta, ma
Hollywood non è Sidney ed io non sono nessuno sul Boulevard delle vere o
presunte stelle.
La mia celebrità non
è indifferente, ma sembro vivere in due mondi: in uno mi lodano, per la parte
di Agron, nell’altro neppure sanno chi sono.
“Ci sono un mare di
sventole, sulle spiagge” – incalza tuo fratello maggiore, ridacchiando.
Sì, certo, anche un
esercito di splendidi ragazzi palestrati, se è per questo: nei bar potrei
rimorchiarne a dozzine, ma non do retta a nessuno e Pana ne è consapevole.
Ci parlavamo ogni
giorno via chat ed io non ho mai violato il mio impegno.
A senso unico, questo
devo precisarlo.
Una strana tristezza
vela le iridi di Pana.
Gli accarezzo la
gamba, sotto quella tovaglia in plastica, come molti oggetti su quel desco
coloratissimo.
Lui abbozza, come
rassicurato.
Vorrei urlarlo in
faccia ai suoi genitori: “Io amo vostro
figlio, cazzo!!!”
Rimango zitto.
Come Pana, del resto.
Camminiamo, fianco a
fianco, sulla spiaggia.
L’oceano riverbera di
azzurro e cielo, che tu guardi di tanto in tanto, così come sembri controllare
la cresta delle colline intorno, dove spesso la tua cricca si riunisce ad
abbronzarsi.
Hai ventiquattro anni
Pana e già un figlio: sei cresciuto troppo in fretta, anche per altri motivi.
“Come sta il bimbo?”
Lo domando perché gli
sono terribilmente affezionato e su di lui, come su di te, amore, ho costruito parecchi
castelli in aria.
Mi sfiori la mano,
poi la prendi, nella tua.
Il cuore mi vibra nel
petto e la gola mi si asciuga.
Le nostre lenti scure
nascondono la burrasca annidata nei rispettivi sguardi.
E’ tutto così bello,
Pana, sembra perfetto.
L’istante preciso,
che fermerei nel tempo, che non abbiamo scelto.
“Mi chiede di te …
spesso Daniel”
Sorridi.
“Sì, avremmo potuto”
“Fare finta di essere
una vera famiglia?” – ti fermi, togli i Ray-Ban e me la imponi secca, questa
riflessione, macerata nel tuo intimo, perché TU sapevi che poteva funzionare e
che IO non ero un pazzo visionario.
Le nostre dita hanno
sciolto l’intreccio.
Siamo distanti.
Ora.
Più che se io fossi
rimasto a Los Angeles e tu a casa tua.
Casa tua …
Tradizioni,
abitudini, voglia di riscatto: ce l’avevi fatta, con il ruolo di Nasir ed avevi
messo in gioco ogni cosa, assecondando non solo le richieste dello
sceneggiatore, ma anche un mio legittimo pensiero, alla fine condiviso: “Se
saremo convincenti, vedrai che sarà un successo, Pana”
Avevo ragione.
Una volta, una sola,
con te, a quanto pare.
“Se le cose non si
vogliono, non si realizzeranno mai” – dico serafico, ritrovando un minino di
dignità.
Tu non mi hai mai
offeso o ferito: ho fatto tutto da solo.
Va bene così, Pana?
Levo dalle tue spalle
ogni dubbio, ogni senso di colpa.
Anche questo è amore,
sai?
“Troppo complicato
Daniel …” – concludi.
Le tue sentenze,
anche se sei un ragazzino, non mi lasciano alternative o margine di manovra.
Hai sempre deciso, perché
quello innamorato ero io, tu, semmai, resti confuso anche oggi, davanti a delle
onde divenute grigie.
“Sta per piovere Dan,
rientriamo, vuoi?”
L’appetito è passato,
anche se il convivio serale è più chiassoso del pranzo.
Altri parenti si sono
aggregati, per salutarmi, per sapere come stavo ed anche loro, che palle!,
sapere se avevo trovato una fidanzata made in USA.
“Cazzo non la
finivano più … Scusali Dan …”
“No, perché? E’ …
normale”
“Tu odiavi quella
parola” – dici mentre ti stai spogliando.
“Faccio una doccia …
Poi ti libero il bagno, anche delle mie cose, domani riparto” – dico mesto.
Tu perdi un battito,
mi sembra di vedertelo nel petto, appassire nel cuore, che volevo mio e mio
soltanto.
“Avevi detto” –
protesti, ma il fiato si spezza, così la tua voce acerba, che mi ha sempre eccitato,
sul set e fuori.
“Lo so. Ho sbagliato,
credo che non tornerò più qui Taylor”
Ti chiamavo così per
gioco, tu asserivi che accadeva solo quando mi facevi incazzare.
“Stai scherzando!”
“No Pana … no” –
crollo sul materasso.
Il temporale non
vuole saperne di smettere.
Evito di alzare i
toni, i tuoi potrebbero sentirci.
Sembri cadere anche
tu, ma ai miei piedi, per afferrarmi i polsi, con un’energia lacerante.
“Dovevamo esserci, l’uno
per l’altro, Daniel, per sempre!”
“Io ci sarò … Ma non
a queste condizioni, non in questo falso equilibrio, perché noi non siamo
niente, Pana”
Sento le lacrime
traboccare dalle mie palpebre, sento le fitte salire dallo stomaco al palato,
vorrei esplodere, ma tu mi baci, volandomi letteralmente addosso ed
affossandomi, sotto il tuo peso insufficiente a sopraffarmi, ma così dolce da
sostenere ed avvolgere.
Ti giro sotto, senza
interrompere il contatto, voglio sentirti e non posso rimandare.
Ansimi, mentre ti
strappo la camicia – “Mi è mancato …”
“Co cosa?” –
balbetto, mordendoti lento nel collo e poi sugli zigomi.
“Il tuo respiro …
dentro di me, Daniel”
Bussano.
“Pana, mamasita ha
bisogno di te!”
E’ tua sorella
minore, è simpatica e mi adora.
Lo fanno tutti;
chissà se sarebbe così se sapessero che stavamo per fare l’amore, che abbiamo
scopato ogni notte quando giravamo i telefilm, nascondendoci dietro al semplice
sesso, almeno all’inizio.
Ti infili i jeans
saltellando – “E’ incinta … di nuovo, lo so, ma è ancora giovane” – sembri giustificarti.
Ti guardo, dal
finestrino mezzo abbassato e tempestato di pioggia.
Tu alla bancarella di
frutta esotica, a cercare avocado e fragole, dall’altra parte della strada.
Somiglia a noi,
questo frangente: lati opposti, scelte differenti, la strada in mezzo è la
distanza, che ci separa soprattutto fisicamente, le auto passano, sono forse
occasioni?
Cercate, rincorse,
forse già perdute in partenza.
Motivo?
Noi due non siamo
felici, Pana.
Hai un sacchetto in
mano, controlli che non arrivi nessuno prima di attraversare, ma il tuo passo
viene preceduto da un sorriso nella mia direzione.
Hai gli occhi accesi
su di me.
Sorrido, anche se non
riesco neppure a respirare.
Mi manchi da morire,
Pana …
Ti ritrovo stretto e
caldissimo.
Sempre uguale, anche
nel tuo ribellarti, debole, a me, quando mi spingo e poi mi fermo, consolandoti
con i miei baci sulle tue tempie sudate, mentre nascondi il disagio nel mio
collo, leccandomi poi come un cucciolo e donandoti generoso, come hai fatto
dalla prima volta, tra noi.
Voglio toccarti e
godermi ogni briciola di te, prima che arrivi l’alba, quando me ne andrò.
In fondo non è una
scusa.
Un provino è andato
bene, già lo sapevo ed hanno anticipato le riprese del primo episodio pilota.
Volevo parlartene; lo
farò in auto, mentre mi accompagni in aeroporto.
Mentre i tuoi si
congratulano con me per il lavoro imminente, tu sei al piano di sopra, per
delle telefonate, che definisci urgenti.
Un paio di chiamate,
entrambe agitate, anche se non capisco molto di quanto dici.
Forse stai litigando
con la madre del tuo bambino, forse con la tua ragazza, ormai ex, me l’hai
rivelato prima di addormentarti.
Era finita, anzi, non
era mai stata una cosa seria.
Mi aveva fatto male
saperti con lei, quando le preferisti tua moglie.
Da perfetto idiota mi
ero illuso che il vostro matrimonio fosse naufragato a causa mia; devo ancora
comprendere come siano andate le cose, realmente, se poi questa nuova compagna
è come svanita dai tuoi giorni.
“Ok, andiamo, sono
pronto” – dici asciutto, scendendo velocemente le scale.
Tutti mi fanno delle
raccomandazioni simpatiche ed affettuose.
Mi mancheranno anche
loro, sai?
Tuo nonno mi congeda
per ultimo, mentre tu sei già alla guida.
“Figliolo … è l’ultima
volta che ci vediamo?”
Come fa a saperlo? …
Sono come sbigottito.
“Mi auguro di no …” –
rispondo incerto.
“Il tuo cuore
sanguina, ogni volta che metti piede qui, Daniel. Ti sembra giusto?”
Ingoio un rospo amaro
ed indigesto.
“Farei qualsiasi cosa
per Pana” – dico sincero ed è come levarsi un peso, finalmente, anche se al
sicuro da orecchie indiscrete.
“Come vuoi tu …
Decidi di un destino che merita il meglio, questo lo sai” – ed accompagna il
suo sorriso con una carezza, che mi resterà impressa, fino alla fine del mio
viaggio, quando neppure allora avrò dimenticato Pana, ne sono certo.
“Siamo in ritardo!” –
echeggi dall’abitacolo ed il nonno ti scruta.
“Piccolo idiota …” –
sibila, ma è quasi comico.
O melodrammatico.
“A presto” – e lo
abbraccio forte, prima di scappare via.
La risacca ha lo
stesso suono, in ogni parte del mondo, che ho visitato.
Così la forma dei
miei passi, sulla sabbia, ben delineati ed un attimo dopo spariti, tra flutti
schiumosi e salmastri.
La differenza, rispetto
all’altro ieri, è che conto unicamente i miei, visto che la scia dei tuoi,
Pana, è rimasta ad Aukland.
Mi fermo su di una
catasta di tubi in cemento, dimenticati dagli addetti ad un cantiere al molo
dodici.
Ciondolo la mia birra
vuota, tra il pollice e l’indice sinistro, sono stanco, ma non per il jet lag.
Voglio tornare al mio
loft, questa solitudine mi sta ammazzando ed io non voglio farmi compatire da
nessuno.
Già i coinquilini mi
hanno bombardato di domande sulla mia vacanza saltata ed io non sono stato
molto gentile, contravvenendo alla mia indole socievole e disponibile al
dialogo.
Li ho spiazzati.
La battigia mi rivela
le tracce di un passaggio che prima non c’era.
Prosegue in direzione
oltre l’anfratto incolore dove ho poi sostato, con il volto spazzato da una
brezza primaverile piuttosto fresca.
Era presto, forse
qualcuno faceva jogging, niente di strano.
Sorrido: sono piedi
minuscoli, rispetto ai miei, come quelli di …
Non è possibile.
“Daniel!!”
E’ un suono
magnifico, carico di gioia, verso la quale mi precipito, per sincerarmi di non
avere avuto un’allucinazione.
Ti faccio volare,
baciandoti, senza più coordinare movimenti ed ossigenazione: cadiamo e ci
baciamo ancora, rotolando come due adolescenti.
Ridiamo e piangiamo,
all’unisono, stritolando le membra in questa appartenenza, che non si ripeterà
mai con altri.
“Voglio stare con te
Daniel”
Non occorre altro,
per assicurarti la mia dedizione.
“Non ti deluderò, little man” – rido felice.
“Non azzardati più a
chiamarmi così!” – e ti imbronci.
Troverò il modo per
farmi perdonare.
Lo prometto.
The End
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