lunedì 27 giugno 2016

NAKAMA - CAPITOLO N. 68

Capitolo n. 68 – nakama



Robert e Jude, indossando delle tute sterili, si avvicinarono ad Aniston, ritto in piedi, davanti a Geffen, che lo stava ascoltando con attenzione, affiancato ancora da Mads.

“Sì, le analisi sono leggermente migliorate … Lo riconosco” – e il professore alzò lo sguardo sull’avvocato, che trattenne qualsiasi tipo di esultanza, sapendo che il cammino era ancora lungo per il loro Pepe.

Già, loro.

“Non vi è nulla da ammettere o riconoscere, dottore” – si intromise educato Downey, porgendo una busta trasparente all’ex, perché si preparasse, quanto la coppia, ad entrare dal bimbo – “… Noi, Glam, Jude e il sottoscritto, siamo i genitori di questo meraviglioso bimbo e dobbiamo stargli vicino, qualunque cosa accada, Dio non voglia sia il peggio” – e gli si spezzò la voce, mentre Law lo avvolgeva premuroso, guardando Geffen, che annuì – “Sì, dobbiamo stare con lui, nonostante i suoi veti, più che giustificati, ma è necessario” – aggiunse l’attore, con evidente emozione.

“Rob sono d’accordo, Peter considera noi tre, come i suoi papà e Jude è amorevole, come nessuno, con tutti i nostri figli, però devo prima fare una cosa … Poi tornerò, ok?” – e gli sorrise affettuoso, dandogli un bacio sulla tempia destra ed una carezza alla spalla dell’inglese, che arrossì.




Farrell alzò lo sguardo sul volto stanco di Jared, appena entrato in sala d’attesa, senza però alzarsi dalla propria sedia.

“Ciao Cole …”

“Ciao … Come sta Pepe?” – domandò, cercando una sigaretta, nella tasca interna della casacca di jeans, sgualcita dal volontariato e da un tempo, fagocitato dal passato, ormai remoto.

Ce l’aveva dal set di Alexander.
All’epoca era perfetta, come tanto tra loro, in mezzo ad una marea di situazioni totalmente avverse e inopportune, per il comportamento, spesso irresponsabile, dell’irlandese.

“Non ne ho idea: il reparto è off-limits e Glam tiene il cellulare spento”

“Sì, giusto … Provo con Jude” – disse frettoloso, allontanandosi da Leto, ormai ad un soffio da lui.

“Inutile che scappi Colin” – il cantante sorrise mesto, gli zaffiri lucidi – “… non ci sei riuscito mai … Come me, del resto” – e fece spallucce, selezionando due bibite dal distributore automatico.

“Io non sono andato da nessuna parte, sono rimasto qui, non vedi?” – bissò polemico, il cuore in gola.

La bellezza e il carisma di Jared, gli rimescolavano sangue e pensieri, anche dopo così tanti anni, dal loro primo incontro.

“Sono stato egoista, Cole e non so quante volte è successo, ok?” – ammise il leader dei Mars, azzerando nuovamente le distanze, senza che l’altro si muovesse nuovamente.

“Meno male che te ne rendi conto Jay” – replicò Farrell, guardando oltre i vetri, la Cola posata sul davanzale – “… grazie, avevo una sete”

“So sempre ciò di cui hai bisogno, non credi?”

“Quando ti fa comodo” – disse, mordendosi poi la lingua, per come gli zigomi del consorte, tremolarono mortificati.

“Sei cattivo … Senza motivo” – sussurrò Leto, andando ad accomodarsi.

Farrell prese un lungo respiro – “Perdonami”

“L’ho fatto anche quando non dovevo”

“L’hai fatto perché mi ami, Jay, così come io ti amo e ho superato un numero fottuto di problemi e ostacoli, con o senza di te!” – obiettò innervosendosi.

“Oh sì magari con Jude” – ribatté ironico, con una risatina irriverente.

“Dio piantala, ti sembra questo il momento e il luogo adatto per certe stronzate!?” – e gli si parò davanti.

“Certe stronzate, come le definisci giustamente TU, non si dimenticano, ok Cole?!”

L’attore strinse i denti, poi le braccia esili del compagno, dopo averle afferrate senza molti riguardi, per sbatterlo contro alla porzione di parete, nascosta dalle macchinette self service.

“Cazzo lasciami!” – gli ringhiò sulla bocca Leto, permettendo all’aroma del dopobarba di Farrell, di intossicargli le narici.

“Nemmeno se mi paghi” – sibilò il moro, incollandosi a lui, con il resto del corpo, per immobilizzarlo, così come stava facendo ora, con i polsi di Jared, alzandoli oltre alla sua testa, mentre lo baciava invadente e gli apriva le gambe, simulando quasi un amplesso, nonostante fossero completamente vestiti, ma terribilmente eccitati.

“Se sei un cane in calore Cole” – gli gemette sotto al giugolo, dove la fronte madida di Leto finì per capitolare e appoggiarsi.

“E tu sei la mia puttana Jay” – gli ansimò tra i capelli, mentre veniva, sotto a quei pantaloni cargo, dove non indossava niente.

Tremarono, travolti dai rispettivi orgasmi.

Era da un pezzo, che non si ritrovavano in quella maniera così viscerale ed un po’ grezza.
Come piaceva a entrambi.
Inutile rinnegarlo.




I ceri accesi saranno stati un centinaio, di colore rosso, con quella fiammella nel mezzo, che ballava nell’aria, se qualcuno si avvicinava alla statua in legno, di Cristo in croce.

Come aveva appena fatto Glam, senza mai smettere di fissare quel simbolo, di una religione, che non aveva mai sentito come propria in senso assoluto.

L’uomo si inginocchiò, congiungendo le mani grandi, per poi ossigenarsi.

“So che sarebbe facile dirti, prendi me, non lui, che è un cucciolo e merita di vivere ancora tanto, ma non funziona così, vero?” – esordì pacato e in un tono fatto di dolcezza, come sempre accadeva, quando Geffen parlava dei suoi figli – “… In compenso non so, tu cosa pensi di me, sai? Di ciò che ho fatto e non ho fatto, nel bene e nel male … Di come sono quasi morto e di come non ho tolto il disturbo … Di Lula … Di questa famiglia, che è la mia vita” – e si commosse, ma si riprese immediato.

“Non che tu mi debba dei favori, per il dolore, che ho subito, per la malattia, per la perdita di Syria, per le disavventure di soldino … Temo di non averti mai ringraziato abbastanza, per avermelo ridato, non credi? Tu mi hai insegnato a non perdere la speranza, quindi riconosco i tuoi meriti, anche se in ritardo, vero?” – ed inspirò greve – “… Forse volevo farlo di presenza, andandomene da qui, raggiungendoti da qualche parte, magari senza rimanere, perché sono così imprevedibile, ma non per te” – ed alzò i turchesi, concentrandosi sulle gocce di sangue, scolpite tra le spine, della corona di rovi.

“Ho sempre pagato a caro prezzo, le mie scelte, come è capitato a te, giusto? … Ora ti chiedo di non presentarmi il conto, per avere accolto Peter nei miei giorni, anche se ero disperato, quanto lui e ci siamo salvati a vicenda … Tutti mi avevano abbandonato, ma Pepe era pronto ad amarmi, a ridarmi la forza di riavere dignità ed umiltà, nei miei gesti, nella mia sofferenza, per avere perduto Lula … Forse è il suo destino, soffrire così adesso, forse non dipende da me … forse non è colpa mia … Forse sì” – e si passò i palmi gelidi, sul capo rasato.

Un tocco lieve, tra le scapole, lo fece sobbalzare.

“Papà …”

“Lula?!” – lo accolse stranito, parlando, però, sotto voce.

“Pepe è sveglio” – e gli sorrise, tirandolo per la stoffa del gilet mimetico.

“Ma va tutto bene?” – domandò ansioso.

Soldino fece cenno di sì.

“Dio ti ringrazio!” – esclamò Geffen, segnandosi svelto, farfugliando delle scuse per la fretta, con cui voleva andarsene.

Troppa, per accorgersi dell’occhiolino, che Lula schiacciò, in direzione dell’altare, per poi seguirlo felice.




L’officina non aveva subito molti danni e, districandosi tra i turni alle mense e il reparto infantile del Saint Jonas, Paul e Norman trovavano il tempo anche per alternarsi, negli uffici della loro attività, perché non morisse sul nascere.

I pezzi di ricambio erano gestiti da Rovia online, senza ritardi nelle consegne, al di fuori della California, dove la passione per le HD, non era più in cima alle priorità dei numerosi appassionati, mentre Reedus completava riparazioni e messe a punto, lasciate in sospeso da prima del terremoto.

Paul, con ancora negli occhi e nel cuore le risa dei pazienti in erba, della sezione oncologica, under 16, riunì le schede degli ordini evasi, in un cassetto, stranamente vuoto.

Apprendere da Geffen, che Pepe era notevolmente migliorato, gli aveva dato un’immensa gioia.

Il rombo di un centauro, quasi disturbò la sua quiete interiore: strano fosse un cliente, ma il giovane andò subito a controllare.

“Scott …?”

“Ehi ciao!” – lo salutò il diagnosta, togliendosi il casco semi integrale.

“Ciao, non sapevo ne avessi una” – Paul rise, indicando il suo bolide su due ruote.

“Era di mio fratello …”

“Era?”

“Ci è morto, per colpa di questa principessa, lui la chiamava così: era distrutta, ma, ricostruendola, a poco a poco, era come ritrovare Josh, visto che lui viveva per la sua moto” – spiegò, con una naturalezza, che confermava la metabolizzazione di un lutto molto grave per lui.

“Mi dispiace Scott … Forse ne avevo sentito parlare, ma era un periodo difficile anche per me, ecco”

“Sì, rammento” – e scese, togliendosi il chiodo, per appoggiarlo sulla sella, un po’ logora, come altre parti di quel gioiello.

“Tu frequentavi casa nostra, ogni tanto, con Glam”

“Vero, sembra passato un secolo” – e lo scrutò, nella sua acerba e indiscutibile avvenenza.

“E’ passato un secolo!” – Rovia rise spontaneo e pulito.

“Se questo è il tuo modo, per darmi del matusa, ci sei riuscito, ragazzino!” – scherzò anche Scott, senza prendersela.

“Hai saputo di Pepe?”

“Sì, ero in ospedale, siamo tutti sollevati, anche se ora dovremo sottoporlo all’operazione, perché non perda gli arti inferiori”

“Certo … Una cosa alla volta …”

“Ovvio Paul, ma non dobbiamo tergiversare: innesteremo un impianto di viti e bulloni, un po’ come servirebbe alla mia Betsy”

“Betsy? Carino come nome … Ok, facciamo una lista, se sai già cosa ti serve: per l’assetto può pensarci Norman, se tu non hai un meccanico di fiducia, ecco” – propose timido e adorabile.

Nominare Reedus, gli dava sensazioni magnifiche.

A Scott non sfuggì, come molti dettagli, nel suo interlocutore.

“Forse dovrei lasciarla qui e lasciare fare a Norman, per non dimenticare qualcosa, che ne pensi?”

“D’accordo …”

“Fare cosa?” – Reedus era appena giunto sulla soglia, dove colse unicamente l’ultima parte della loro conversazione.

“Ciao amore” – Rovia si precipitò da lui – “Questa è Betsy, necessita delle tue cure e abili mani”

“Soltanto lei?” – gli soffiò nel collo l’ex sbirro, dandogli poi un bacio, mentre sbirciava di sottecchi Scott, lanciandogli segni inequivocabili.




“Oh ma dovevi vederlo, per poco non pisciava intorno a Paul e segnava il territorio, un perfetto maschio Alpha”

Brendan Laurie rise di gusto, ascoltando la cronaca di Scott, sul suo incontro con Norman.

Stavano completando una serie di vaccinazioni, in un quartiere malfamato e distante dal centro di Los Angeles, non senza la vigile sorveglianza di Vas e soci, anche loro impegnati a fare delle riparazioni, all’interno dell’ambulatorio, piuttosto disastrato, dal sisma e dai vandali.


“Tu in compenso, volevi fare lo splendido, a bordo di quella meraviglia smarmittata?” – chiese, provocatorio, l’analista, congedando gli ultimi visitatori.

“No, anzi … Ok, ok, lo sanno tutti che sono in crisi con Jimmy … Anche questo cataclisma non ci ha aiutati …”

“E ti stai guardando in giro, Scotty?”

“No … Forse sì … Oh insomma, Paul è magnetico, mi manda su di giri e non vedevo l’ora di rimanere qualche minuto insieme a lui, dopo averlo monitorato alla villa di Palm Springs” – rivelò complice.

“Su di giri? I riferimenti da moto GP sono sempre casuali, vero? Stai attento a non fondere il motore …”

“Credi non abbia almeno una chance? Se c’è riuscito quel buzzurro”

“Scott, ma cosa ti prende?” – replicò con stupore Brendan, mentre risalivano sull’Hummer di Vas.

“Giocherò le mie carte, ok?” – e rise, un po’ nervoso.

“Non ho dubbi … Sempre che Norman non te le faccia ingoiare, con tutto il pacchetto!”





 SCOTT


 BRENDAN


 NORMAN





 PAUL



giovedì 23 giugno 2016

NAKAMA - CAPITOLO N. 67

Capitolo n. 67 - nakama



Il cumulo di macerie, scricchiolò sotto ai loro piedi.
Jared, inginocchiandosi, si asciugò una lacrima; Geffen, alle sue spalle, fece altrettanto, raccogliendo il dolore del cantante, tra le sue braccia grandi.

“Avanti Jay, andiamocene da qui” – e lo risollevò, girandolo a sé.

“No, è che questo posto era speciale, ecco” – disse triste, appoggiando la guancia sinistra sul cuore dell’ex.

Un luogo ricco di ricordi.
Il loro cottage in collina.

Passi diversi, li raggiunsero: era Farrell.

Un colpo di tosse e lo sguardo indecifrabile dell’irlandese, investirono le iridi lucide di entrambi.

“Cole …”

“Vi ho praticamente inseguito, c’è un’emergenza Glam, non dovresti tenere il cellulare spento” – disse tormentandosi l’addome con le mani gelide, sotto la camicia sgualcita– “… Pepe ha la febbre, lo hanno portato in ospedale, Robert e Jude sono con lui, oltre a Scott e Mads”

“Mio Dio, vado subito” – replicò il legale, allarmandosi.

“Noi ti seguiamo” – aggiunse sommesso Leto, senza mai smettere di fissare il consorte, che si riavviò veloce verso il proprio suv, tallonato dal leader dei Mars, in palese imbarazzo.


“Dimmi qualcosa, per favore Colin”

“Non ora, dobbiamo sbrigarci”

“Ti chiedo scusa se”

“Scusa per cosa?” – sbottò, inchiodando ad un semaforo, diventato improvvisamente rosso.

Jared ebbe un sussulto, poi deglutì a vuoto, guardandolo.

“E’ evidente che ti abbiamo fatto incazzare” – fu più esplicito.

“TU mi hai fatto incazzare, Jay!” – e continuava a puntare l’incrocio, ormai sgombro.

“Pensavo di avere chiarito ogni cosa, insieme a te, Cole” – ribatté oltre modo calmo.

Farrell prese un lungo respiro.

“Glam è … Così ingombrante” – sbuffò l’attore, ripartendo – “… e stavate commemorando la vostra preziosa alcova, dove Dio solo sa, quante volte mi hai tradito” – e non si alterò affatto, su quella pura constatazione.

Del passato.

“Siamo stati sposati e abbiamo una figlia, con Glam, non posso di certo cancellarlo dai miei giorni, neppure se lo volessi” – provò a difendersi, il leader dei Mars.

Erano arrivati.

Colin parcheggiò, scendendo poi veloce, come la sua amara replica – “A volte mi chiedo se Syria non sia stata, per te, solo l’escamotage più efficace, per non svincolarti più da lui, sai?”




Downey gli corse incontro, l’aria tesa, gli occhi colmi di angoscia.

“Ieri sera stava bene, cosa può essere successo, Glam!?” – e scoppiò in lacrime, finendo tra le sue ali.

“Non ne ho idea tesoro, adesso ci diranno qualcosa, vero Jude?”

Law annuì, provando come un vuoto allo stomaco, per non avere più accanto il suo Rob, su quella panca scomoda, come pochi istanti prima.

Nel frattempo vennero convocati nello studio del primario, amico di Steven Boydon, presente al colloquio, richiesto dal collega.

“Il quadro clinico è molto delicato, non ve lo nascondo: Peter ha avuto un’infanzia di stenti e il suo metabolismo, il sistema immunitario, la struttura ossea e muscolare, hanno subito una formazione e crescita rallentate”

“Sì, ma da quando è con noi, Pepe mangia regolarmente ed è un bimbo sveglio, intelligente” – lo interruppe Downey, confortato sia da Geffen che dal marito.

“Non ne dubito” – il dottor Aniston sorrise, senza pregiudizi – “… Purtroppo, però, le fratture riportate durante il sisma, lo hanno indebolito e un’infezione piuttosto subdola ha preso piede e ora sta mettendo a dura prova il suo organismo: noi faremo tutto il possibile per salvarlo”

“Salvarlo … La situazione è così grave?” – intervenne, sommesso, Glam.

“Lo stiamo mantenendo in un coma farmacologico molto blando, per non affaticare il cuore e i reni: non posso nascondervi i miei timori” – bissò con franchezza.

Glam si alzò, lasciando Robert sul cuore di Jude – “Posso andare da lui?”

“E’ in camera sterile signor Geffen”

“Lo comprendo, ma suo fratello Lula, deve assolutamente stargli vicino”

“Lula … Ho letto di lui” – Aniston tossì perplesso – “… In certi ambienti è considerato un bambino … speciale”

“Quali ambienti, scusi?”

“Temo siano unicamente sciocchezze” – il diagnosta provò a rimediare, ma l’occhiata di Glam era divenuta torva.

“Soldino, noi lo chiamiamo così, ha poteri sovrannaturali, è giusto che lei lo sappia, professor Aniston, qualunque cosa accada” – lo gelò l’avvocato, credibile e risoluto.

“Qui si lavora in maniera differente, se permette”

“Per favore, è di Peter che stiamo parlando, è di nostro figlio Glam, non devi arrabbiarti e noi abbiamo fiducia in lei, dottor Aniston” – affermò solerte Downey, alzandosi di scatto.

Boydon invitò i presenti a riprendere il controllo delle proprie emozioni, quindi li congedò, per stabilire il piano terapeutico di Pepe, con l’ausilio del collega.

I tre tornarono in corridoio, che Geffen divorò a grandi passi, mentre componeva un numero sul palmare – “Sono io: portami Lula, al quinto piano del Saint Jonas Hospital: non perdere un solo minuto, ok? Ti ringrazio Vas” – e riattaccò, scuro in volto.




Questa volta era diverso.
Era come un tempo.

I baci di Harry.
Gli ansiti di Louis, nel sentirselo vivere dentro, mentre le sue dita si intrecciavano a quei riccioli scompigliati, sul viso bellissimo e innamorato di Styles.
Si era arreso, non poteva rinunciare a quei sentimenti, capaci di farlo sentire al mondo, come null’altro.

Si baciavano, ad occhi aperti, in un sogno, così reale, da frantumarli e ricomporli, ad ogni gemito.

E poi l’oblio, devastati di lussuria e affamati di tenerezza, su di una terrazza a villa Geffen, abbandonati nel vento di quel primo pomeriggio, che sollevava e lasciava ricadere la pagina, di una lettera, alla quale Louis non avrebbe risposto mai, mentre, fermati da un pesante posacenere, due assegni, uno per lui ed uno per gli studi di Petra, erano l’ultimo aiuto, ricevuto da Arthur Keller, già in volo verso l’Africa.

Senza più guardarsi indietro.






“E’ come se …” – Jude si ossigenò, selezionando una bibita dal distributore automatico, al quale Colin si era appoggiato stanco, ad ascoltarlo – “… come se Robert si aggrappasse a questa cosa, cioè, a questo figlio, così da non avere un buon motivo per staccarsi da Glam” – e gli faceva male dirlo, soprattutto per le condizioni di Pepe, per nulla rassicuranti.

“Per Jared è lo stesso, grazie a Syria, ma non ne avevano bisogno, entrambi, né lui, né Robert, di avere un’ottima ragione, per impedire a Glam di andarsene”

Law lo scrutò, triste – “Andare dove?” – e sorrise, trattenendo a stento un pianto, che lo stava opprimendo al centro dell’addome.

“E chi può saperlo … Lo abbiamo snervato così tante volte, che poi gli unici, a dovercene conto, dovevano essere i nostri compagni, non di sicuro Geffen” – e rise sconsolato, ripercorrendo a mente, le tante avventure vissute in giro per il mondo, ad inseguire l’uomo, che, in fondo, ognuno di loro amava.

“Preghiamo per Peter” – concluse secco l’inglese, accartocciando la lattina, per poi gettarla in un cestino quasi colmo.

Come il vaso della sua pazienza, pensò, ma non avrebbe ceduto alla rabbia o alla gelosia: era come essere Watson, la gamba ferita, che lo faceva zoppicare.

Se lo sarebbe tenuta a vita, quella disgrazia.
Anche se lo turbava, definirla così.




Mikkelsen posò la mano sinistra, sulla spalla destra di Geffen, assorto davanti al vetro, della camera di Peter, profondamente addormentato, in un sonno senza incubi.

“Sta soffrendo?” – chiese Glam, a bassa voce, mentre due lacrime rigavano i suoi zigomi tesi.

“No, lo abbiamo sedato a sufficienza” – rispose il medico, mentre fissava Lula, al capezzale di Pepe, senza sapere quanto fossero connessi tra loro, anche in quel momento.

“Soldino cosa sta facendo?” – domandò educato il chirurgo, interrompendo il contatto fisico con Geffen e mettendosi le mani nelle tasche del camice.

“Lo conforta … Sono davanti all’oceano, ma non qui, ad Haiti, con Syria … La mamma di Isotta, intendo” – spiegò lucido, anche se il suo discorso poteva sembrare l’esatto contrario – “… Non è neppure una magia o un sortilegio, come crede quell’Aniston … E’ l’amore che ci lega, capisci Mads?” – e lo guardò, a quel punto.

“Una simbiosi … Giusto?” – e si morse le labbra, che mai, scettiche, avrebbero deriso il suo interlocutore: Mikkelsen sapeva che Glam stava dicendo la semplice verità.

“Sì … E’ come un volo, sai? Lula mi ha ripreso così tante volte, quando era quasi finita, per me … Mi auguro accada anche con il nostro Pepe, perché non può finire così … Non deve.”




Robert si era rannicchiato su di una poltroncina, appena fuori il reparto, dove Pepe stava lottando per non andarsene.

Potevano accedervi singolarmente e lui fremeva di dare il cambio a Glam, che sembrava tardare.

“Forse le cose si sono aggravate” – disse di impulso a Law, appena accomodatosi al suo fianco, ma direttamente sul pavimento.

Downey si inginocchiò, brandendogli i polsi.

“Rob …”

“Ne morirei, se lo perdessimo, so quanto lo ami anche tu, Jude” – singhiozzò, senza più difese, mentre il consorte lo stringeva energico a sé, senza esitare.

Ed era allora, che la coppia riusciva a ricompattarsi, più solida di prima, come nessuno.

“Andrà tutto bene, ok? Guardami Robert, guardami!”

Downey lo fece, rinfrancato nell’animo, dalla sua forza, dal suo esserci generoso e disinteressato.

“Ti amo Jude … Ti amo così tanto” – e lo baciò.

Risalendo il baratro.
Grazie a Law.

Per l’ennesima volta.












venerdì 17 giugno 2016

NAKAMA - CAPITOLO N. 66

Capitolo n. 66 – nakama



Il sorriso di Paul, rispecchiava tutta la dolcezza, che Norman provava nel prendersi cura di lui, ogni istante della giornata.
O della notte.

Erano così stanchi, ogni sera, che si addormentavano quasi subito, abbracciati, in una delle tante stanze, destinate agli ospiti, all’interno della villa di Glam, per poi svegliarsi, verso l’alba, a ridere del nulla, facendosi dispetti e poi l’amore, appassionato, indispensabile, come aria.

Quindi una passeggiata, tenendosi per mano, a lambire le onde, lì davanti, a piedi nudi, con il cuore pulito.
Niente più incubi per Rovia.
Niente più angosce per Reedus.

Infine, prima di ripartire verso le mense e i campi di soccorso a Los Angeles, consumavano una colazione abbondante, nel caos totale di quella stramba compagnia, di quella famiglia bellissima, sotto ad un patio, dove non mancavano mai i palloncini per i bimbi e la musica per gli svitati, come Jared e Xavier, capaci di imbrattarsi di marmellata, mentre suonavano e cantavano, usando strumenti improvvisati, stoviglie e bicchieri, mentre le spazzole di Pam erano perfette come microfoni.

Era come uno spiraglio di luce, di felicità, apertosi in quell’abisso tragico, dopo un sisma devastante.

Come quello, che aveva mandato in pezzi, la vita di alcuni di loro, come Styles.

Harry se ne rimase in disparte, in mezzo agli scogli, quel mattino di lunedì: una nuova settimana, durante la quale ognuno di loro si improvvisava angelo della provvidenza, targata Meliti e Geffen, senza sapere bene, almeno nel suo caso, quale sarebbe stato il proprio futuro, personale e professionale.

Lo studio era stato inghiottito da una voragine, come il resto degli appartamenti, di un palazzo di vecchia generazione.

Boo lo intravide e Arthur gli sorrise, porgendogli una tazza fumante – “Perché non glielo porti?” – disse dolce l’uomo – “Penso ne abbia bisogno”

Louis sorrise timido, quasi arrossendo – “Ok … Ma torno subito”

“Non c’è fretta: ci andiamo in auto, per conto nostro, in città, tanto devo sbrigare delle commissioni, ok?” – propose rilassato, gustandosi lo stesso caffè.

Tomlinson annuì, poi si avviò, con una certa trepidazione nel respiro, che a Keller non sfuggì minimamente, senza, però, sentirsi ferito dalla reazione del più giovane, quasi scontata, anzi, più che comprensibile.


“Ehi …” – disse piano, mentre Harry gli stava fissando i piedi perfetti e scalzi.

Boo era uno splendore, anche se ancora arruffato di sonno e provato dai turni come volontario, che, in compenso, lo avevano fatto rinascere, almeno quanto l’affetto e la presenza di Arthur.

“Ciao Louis” – e lo smeraldo, incontrò il mare stellato, chiedendosi come avevano potuto alzare un muro, tra loro, destinati a camminare insieme, come Styles aveva visto fare, un’ora prima, a Paul e Norman.

“Ciao … Ne vuoi?”

“Sì grazie … Credevo foste già andati via”

“No, è ancora presto”

Styles sorrise amaro – “O è troppo tardi, vero?”

Boo storse le labbra, abbassando lo sguardo, ma per una frazione di secondo soltanto.

“Petra la tengo io, quando arrivo, così stai un po’ in pace, che ne dici Haz?”

“Dico che è l’unica cosa bella mi sia rimasta, quindi non portarmela via” – replicò serio e dignitoso.

“Non l’ho mai neppure pensato!”

“Neppure da quando ti sei messo con Arthur o con i suoi soldi?” – affermò aspro.

“Perché fai così …?” – bissò sconfortato Tomlinson, a mezza voce.

“Perché la mia vita è andata a puttane, ecco perché Louis!”

“Sei tu ad averlo voluto, miseria schifosa!”

Tutti notarono il loro interagire, sempre più acceso di rabbia, ma nessuno intervenne.

Keller trattenne Geffen, che non ammetteva certe discussioni, in presenza dei bimbi, quasi ormai tutti andati a cambiarsi, comunque.

“Lascia stare, è necessario: o dentro o fuori, Glam” – disse con fermezza Arthur.

Aveva perso almeno quindici chili, si era rimesso a fare palestra, abbronzandosi ai campi base di pronto intervento, mangiava più sano, aveva persino smesso di bere e tirare di coca, abitudine, in ogni caso, ormai rara, anche nel passato recente.

“Tu credi?”

“Sono nati per stare insieme, ma non lo hanno mai voluto abbastanza”

“Te l’ha detto Louis?”

Keller sorrise – “Me l’ha detto il suo cuore, incapace di mentire, come possiamo fare noi, da perfetti coglioni, sia chiaro”




Styles provò ad andarsene, ma Boo glielo impedì, veemente e pronto a non dargli scampo.

“Mi hai buttato via, come una scarpa vecchia, hai sposato la prima, che ti è passata davanti e l’hai persino messa incinta, per cosa eh?! Per sentirti un vero uomo, Harry?!? Lo eri già, con me, con la nostra Petra, ma non ti bastava, non ti andava a genio!! Sei solo un represso, un bigotto puerile e anacronistico!” – sbottò feroce, ad un centimetro dal suo volto ansante e pallido.

Harry si era dimenticato di respirare, accusando ogni parola, ogni pugnalata, al centro del petto, dove avrebbe voluto nuovamente stringere Louis e la loro bambina, se fosse mai stato possibile.
La pioggia del suo dolore, bagnò il verde, di quei prati, disseminati nei suoi occhi grandi, ora, su Louis, tremante e smarrito, le pulsazioni a mille, la gola inaridita, da quelle che non erano affatto cattiverie gratuite.

“Hai ragione Boo … Non cambierà niente ammetterlo, però è tutto vero: non so in quale forma io volessi essere accettato, sin dall’infanzia, quando la mia intelligenza non aveva portato affetto nei miei riguardi, ma un rifiuto, un disprezzo, da parte di chi ti fidi per primo, come i miei genitori, questo lo sai, vero?”

Louis annuì, dandogli una carezza calda e generosa, sullo zigomo destro – “Ma io l’avevo fatto, forse nel modo sbagliato”

“Tu eri in vantaggio, ci credevi visceralmente, alla tua identità sessuale, alle tue scelte, anche se poco ortodosse, per tirarci fuori dai guai e dalla disperazione, in questa città, che adesso, con le sue macerie, somiglia anche troppo, al nostro rapporto” – e abbozzò un sorriso mesto.

“Ma ci stiamo impegnando per ricostruirla e sarà meglio di prima” – bissò adorabile, nella sua spiccata innocenza.

“Los Angeles di sicuro, ma noi, Boo?”

La sua risposta, fu un bacio.
Mentre lo avvolgeva, appendendosi a Styles, ai suoi timori, alla sua solitudine, che, forse, avrebbe conosciuto finalmente un epilogo insperato.




Geffen lo raggiunse al terzo piano, mentre Arthur stava recuperando senza fretta, un trolley dall’armadio e il passaporto dal cassetto del comodino.

L’impronta di Louis, tra le lenzuola ancora disfatte, era appena percettibile: stava scomparendo, come appena avvenuto nei giorni dell’uomo, all’apparenza sereno.

“Potresti darla tu, a Boo, questa?” – e gli passò una busta, mentre Glam lo scrutava costernato.

“L’avevi già scritta?”

“Certo, ne sei sorpreso?” – ribatté calmo.

“Io francamente non ti capisco, Arthur …”

“Proprio tu, che hai lasciato sempre andare chi amavi?” – disse con un bel sorriso.

“E tu, in compenso, dove andrai, ora?”

“Ho un cugino in Namibia, ha aperto un asilo e due scuole: ora mancano i fondi e le braccia, per l’ospedale … Ho scoperto che mi piace agire, costruendo qualcosa di concreto, di tangibile, Glam, come del resto hai fatto tu, ad Haiti” – rivelò fiducioso e realizzato.

“So che farai buon uso del tuo denaro e della tua volontà” – e lo abbracciò caloroso e commosso.

“E’ una rinascita, la mia … Sarò un padre migliore, quando tornerò, i miei figli lo apprezzeranno, ma adesso devo andare Glam”

Si guardarono – “Lo so Arthur … Io questo l’ho sempre saputo.”




Tom provò a nascondere la cicatrice sulla fronte, con un ciuffo di capelli, più lungo degli altri.
L’aspetto di tutti, era divenuto trasandato, anche se nulla poteva scalfire la sua avvenenza e tanto meno quella di Chris, alle sue spalle, perso nell’ammirarlo.

“Ti sposerei ad ogni alba” – disse rapito da un’emozione, quasi ingombrante, che divampava nel suo busto spazioso.

“Ehi” – Hiddleston si girò, con un sorriso luminoso.

“A proposito, fissiamo una data, vuoi?” – propose altrettanto sorridente il biondo, andando a stringerlo con trasporto.

“Io sono pronto amore” – disse convinto e trepidante; non si era mai sentito così vicino al proprio compagno, come in quel momento.



Jared trangugiò la dose quotidiana di integratori e vitamine, dopo avere allacciato i sandali a Isotta e il costumino a Florelay, che corsero, verso la battigia, dove Rossi avrebbe intrattenuto quell’allegra brigata, con un corso di cucina improvvisato.

Geffen l’aveva notato, scendendo alla terrazza intermedia, dove Leto si trattenne ancora un attimo, a guardare l’oceano in lontananza.

“Ciao …”

“Glam, ciao” – lo accolse radioso, come esclusivamente lui riusciva a fare.

“Non sarebbe più sostanzioso un panino?” – chiese, provando a nascondere il suo disagio, per il congedo da Keller, che sapeva di addio.

Inutilmente.

“Hai l’aria stanca Glam … Nuovi pensieri?”

“No, cioè sì” – e si schernì appena – “… Arthur sta partendo per l’Africa”

“Con Louis?”

“Affatto … Lui e Harry si sono riconciliati … forse” – e scrollò le spalle larghe.

“A te dispiace?”

“Sono contento per Petra” – e deglutì a vuoto.

“Hai perso anche tu, Boo, vero?” – domandò con tenerezza inattesa.

“Sai, non gli piaceva lo si chiamasse così, a parte Haz … Era una cosa loro, nella quale non avremmo mai dovuto entrarci, né io e tanto meno Arthur, però al mio socio ha fatto bene”

“Al tuo amico” – lo interruppe Jared, con un sorriso comprensivo.

Geffen inspirò – “Resterò in piedi, anche questa volta”

“Lo so Glam” – e lo abbracciò.

Ed era così bello perdersi, senza più volere tornare indietro.