mercoledì 28 novembre 2018

One shot – Le vite sbagliate


One shot – Le vite sbagliate


I can’t
Pov Robert Downey Jr.


Ridacchio armeggiando con il badge, Norman ride alle mie spalle, ci posa sopra le mani calde – “E muoviti, ma sei brillo?” – chiede divertito, ma siamo entrambi sobri.

L’ennesimo premio, il party, abbiamo fatto gli scemi per l’intera serata, ora non resta che chiuderci nella suite, riservata dalla mia produzione, faraonica constatiamo appena varcata la porta, chiusa con un colpo di tacco dal mio amico.

Sì. Norman Reedus e io, siamo amici da anni.
Ci penso, sorrido.
Lui mi fissa – “Che c’è?” – mormora dolce, sfilandosi la giacca elegante, lui, sempre conciato da bullo HD, come adoro canzonarlo.

Lo sto guardando troppo, me ne rendo conto, così come mi rendo conto di adorarlo.

“Sei bello, ecco che c’è” – rispondo sincero e lui brontola qualcosa, avviandosi al mobile bar.
“Hai ancora sete?” – chiedo curioso delle sue mosse.
“No, ho fame, voglia di noccioline”
“Sei incinto come Diane?”

La tua Diane, vorrei rimarcare, però evito.
Mai capita la loro storia, profilo basso, come con Susan.
La mia Susan?

Ok, lasciamo perdere, non voglio rimuginare sul nostro matrimonio, sui rumors puntuali, “hanno litigato, si separano, pronti al divorzio”.

Cazzate.
Sì.
Cazzate, ok.
Ok.

“A che pensi, Rob?” – e intanto si scola una tonica, lui, che non aveva sete ed io, mi divoro le noccioline.
“Sembri una scimmietta” – e ride giocoso, slacciandomi la camicia.

“Ehi aspetta” – protesto flebile.
Norman si ferma, però mi bacia.
Un bacio profondo.
Tiene il mio viso tra i palmi, ora bollenti, come il suo fiato.

A me piace soccombere, lui lo sostiene da un pezzo.

Avrà anche ragione.
Tremo e lui mi sente.
Lo fa sempre.

“Che succede?” – è calmo, non invade mai, non pretende nulla.
Anche due anni prima, l’unica volta, che è capitato, in auto, come due ragazzini, l’abitacolo sportivo, poco spazio, lui sotto, io tra le sue gambe magre, perché il suo peso è una variabile costante, avevamo riso sull’argomento, ogni tanto gli lievitava l’addome, troppe birre?
Poi di nuovo esile, tonico, pigro nell’allenarsi, ma graziato da madre natura, generosa anche nel donargli un volto bellissimo, magnetico.
Unico.

“Succede che … Non saprei Norman” – e mi stacco, vado a sedermi sul divano, mi tormento la fede, la tolgo dall’anulare – “Ho le dita gonfie, mi dà noia” – mi giustifico, la metto in tasca.

Norman sorride, si accomoda, mi accarezza il fianco sinistro con la sua parte destra, mi avvolge.

“Come vanno le cose con”
“Non adesso, non mi va proprio di parlare di Jude” – replico assorto, puntando la tv spenta.

“E poi ci siamo lasciati un anno fa”
“E’ un anno che rimandate il film”
“Non per colpa mia Norman” – preciso, come se ce ne fosse bisogno.
“Ok”
Si alza.

“Dove vai?” – spero non via, ho bisogno di stare con lui, posso anche dirglielo e lo faccio.

La nostra complicità nasce da qualche parte, che nessuno dei due ha voglia di spiegare all’altro.
Meglio così.

Torna da me, si inginocchia, afferra le mie gambe, le schiude – “Ecco la porta del paradiso” – scherza, mi bacia di nuovo.

Mi appendo a lui, lo bacio forte, lo voglio dentro di me, ma non è scopare, lo sappiamo e non lo diciamo.

Parliamo spesso, ma le confidenze sono una cosa, mentre le verità, suonerebbero meno rassicuranti.

Il suo cellulare vibra.
“Accidenti” – bofonchia infastidito.
È buffo.

“Dovevo spegnerlo e”
“Rispondi, magari è importante” – lo esorto, ma farei meglio a tacere.

Norman controlla il visore e poi risponde.
La voce calda di Jeffrey Dean Morgan è talmente intensa, che arriva persino a me, a tre metri di distanza.
Norman si è appiccicato allo stipite dell’ingresso, ma il suo tono è nitido.

“No tutto bene, la cerimonia è stata un po’ lunga, la festa una noia, sono già a nanna … Sì, volevo farlo, ma credevo dormissi … Ok, lo so che posso chiamarti a qualsiasi ora” – sorride spento e si accovaccia, cercando ossigeno e mi guarda.

Vorrei chiamare Jude.

Ci stiamo guardando come due coglioni, penso.

“JD domani torno e ne parliamo, ok? … Certo che il Natale lo passiamo insieme, ma non so i parenti di Diane cosa faranno e … Ok, c’è un sacco di spazio anche da me e … Cosa?” – ride, Morgan ci sa fare, lo rivolta come un guanto, lo fa sempre, a Norman piace.

“Un giro il 27? E dove andiamo? Molliamo tutti e … Va bene” – inspira, si rialza – “… Anch’io …” – si morde le labbra – “Nessun problema a dirtelo … Ti amo JD” – sembra strappargliele queste ultime parole, lagnandosi come un bimbo, perché, lui, Jeffrey Dean Morgan, penso gliele abbia ripetute circa otto volte, prima di salutarlo definitivamente.

Ha riattaccato.
Verso da bere.
Un succo tropicale, guai a sbronzarci.
Ed ho una dannata voglia di farlo.
E non posso.
E vorrei farmi.
E non posso.
E vorrei vivere.
E non posso.

Cazzo, io non posso.

“L’ultima volta, con Jude, ci siamo picchiati”
Lo dico e basta, ma perché lo dico a Norman?

“Mi dispiace” – il suo tono è roco, mi sfiora i fianchi, da dietro, mi rassicura con naturalezza, nel suo abbraccio, mi bacia la nuca.

“E’ … è per questo che l’ho lasciato, perché ridursi in quel modo, significava che era finita, no?”

Norman resta in silenzio.

“JD ti ha mai picchiato?” – e sento le lacrime incendiarmi gli occhi e la gola.

Vorrei urlare.

E non posso.

“No. Lui mi vuole bene. Bene sul serio ed è per questo che”
Anche Norman non riesce ad andare avanti.

Mi giro.
Lo stringo con l’ultima energia rimasta; siamo svuotati, lo percepisco.

È ciò che resta.
Le nostre vite sbagliate.
Le nostre scelte.
Finire a letto con i colleghi di set, con qualche assistente, decisioni senza alcun senso.
O forse, l’unico senso, era quello di vuoto, da colmare.
Senza sosta.
Senza soluzione alcuna.

Due anni prima, guardando il tettuccio dell’auto sportiva, dopo, le rispettive rivelazioni, sembravano una confessione allo specchio.

“Con JD ci conoscevamo già … Che ne so, forse lavorando insieme, non riesco a spiegartelo Rob, ci siano innamorati come tredicenni alla prima cotta, sempre a cercarci, a toccarci, a baciarci negli angoli bui, persi in un amore assurdo” – si apriva, buttando fuori il fumo della sua Camel, la pelle imperlata dal sudore del nostro amplesso.
Una visione, lo ammetto.
“Anche il mio, per Jude, è un amore assurdo”
“Ma io non ho mai chiesto niente a JD e lui neppure, cioè, tipo convivere, avere dei bambini” – rideva senza allegria – “… ma poi la casa nuova, io, l’ho comprata vicino al suo ranch, quindi qualcosa la volevo”
“Jude ed io, la casa, l’abbiamo presa a Londra, sei anni fa … Non è servita a molto.”


Norman fa delle pause, toccando la mia erezione, mentre mi bacia e si muove dentro di me.
Anche tutto questo è assurdo.
Ed è così bello.
Consolante.

È impossibile smettere di guardarci.
Sappiamo cosa stiamo facendo.
Lo abbiamo desiderato, appena ci siamo accorti l’uno dell’altro, a quella interminabile cerimonia e poi durante la festa noiosa.

Veniamo insieme.
Le sue dita, tra i miei capelli, le mie, tra i suoi, precipitati in un bacio, fatto di lacrime, ma necessario a custodire qualsiasi rischiosa espressione sentimentale.

Mi gira, ricomincia.
Potrei perdere anche i sensi, per come spinge; è rabbia, la sua?
Identica alla mia, perché negarlo?

Rallenta, smette, si separa da me, sembra volare via, mentre mi accascio sulle lenzuola macchiate di noi.

Mi riprende a sé, torna a scrutarmi, inginocchiati entrambi al centro del letto disfatto, come i nostri respiri.

“Ti voglio bene Norman”

Lui, è di questo, che ha bisogno.
Faticherà a dirmelo, lo so, lo eviterà a dovere e non ci sono problemi; non ce ne saranno mai.
Tra di noi.

Mi bacia.

Mi bacia ancora.


The end








mercoledì 12 settembre 2018

One shot .- Once upon a time


One shot – Once upon a time



Los Angeles, in September 2018

Pov Jared Leto




Esito, nel girare la chiave del cancelletto sul retro.
Los Feliz è semi deserta a quest’ora.
La gente è già corsa a casa, a vedersi la partita, a cambiarsi per cena, a trovare pace, dopo una giornata frenetica, in questa città di pazzi.

Sorrido, ma non abbasso il cappuccio della mia felpa.
Fa ancora così caldo, ma io non lo percepisco, come gli altri.

E forse potrebbe esserci qualche paparazzo, chissà.
Ancora me ne preoccupo.

La porta della cucina cigola; un’altra serratura, chiusa per poco.

Inspiro, concentrandomi sui suoni della casa.
Un’abitazione immensa, per un’unica persona.

Anche se non sei da solo, me ne rendo conto, salendo le scale, facendo meno rumore possibile.
Volevo sorprenderti, ma tu mi anticipi.

Henry poggia la testolina sul tuo petto; siete distesi su di un quilt, regalo di qualche Natale passato.

In Irlanda, ne sono quasi sicuro.

“Allora la mia favola, papi?” – sorride.

Lo tieni stretto, fissi un libro, colorato e logoro.

Quante volte, gliel’avrai raccontata?

Ridi piano, scompigliando i suoi capelli, accidenti quanto è cresciuto, ma tu non smetterai mai di raccontargli favole.

O bugie?
Mi pento di averlo pensato.
Ti voglio così bene, che ho imparato a capirti, non tanto a perdonarti Colin.

“Dunque … C’era una volta un”

Ti fermi, guardi in giro, poi spii il sonno improvviso di tuo figlio.

Io lo amo, così James, perché sono parte di te.
Sono il tuo cuore, che ha deciso di vivere oltre i tuoi giorni, attraverso il loro cammino, anche se non sarà semplice, vero Cole?

Ti sollevi lento, fai attenzione, poi resti seduto sul bordo del letto, ancora un attimo.

Scruti il tramonto, nascosto dalle tende chiuse.

Ci arrivi, le apri, metti le mani in tasca e respiri più forte.

“Sei lì da tanto, Jay?”
Lo chiedi, improvviso, quanto i sogni di Henry, che lo hanno rapito, prima che ascoltasse il tuo racconto.

Avanzo, sentendomi anche un po’ stupido.

Ti volti.
Sorridi.

“Le medicine, sai, ho il fiuto di un segugio ormai”

Scrollo le spalle – “Succede, sì”

Io, io non so cosa dirti.

Mi tendi la mano destra – “Vieni, andiamo di là”
Ti seguo, senza prendere le tue dita, che hanno un lieve tremore.

Entriamo in un salotto, ti accomodi, posi l’album di fiabe e prendi una sigaretta; poi la rimetti nel pacchetto.

Io sono ancora in piedi.

Mi fai posto e con i tuoi occhi, così belli, mi inviti a non avere paura delle mie stesse emozioni.

“Com’era Toronto?” – domando, tormentandomi leggermente le mani.
“Caotica”
“Il TIFF?”
“Noioso”

“Jared”
“Come sarebbe stata la tua storia, questa sera, per Henry?”

Ti fisso.
Sono di nuovo qui, riesco ad esserci e non so neppure io come.

Ridi, senza enfasi.
Apri le pagine, ne scegli una a caso.

Ci sono principesse disegnate ovunque.

Tossisci, inforcando gli occhialini, tenuti sino a quel momento nella tasca della camicia celeste.

“C’era una volta, un principe triste. Una strega malvagia, con un sortilegio, lo aveva condannato a non potere più stare alla luce del sole. In principio, il principe visse male la cosa, ma poi, girovagando fuori il suo castello, nel bosco, iniziò a conoscerne gli abitanti: animali fedeli, al suo passaggio, folletti dispettosi, ma così divertenti, fate, che gli avevano promesso di trovare un antidoto, prima o poi e infine un pescatore, che solo di notte, provava a catturare una trota dalle squame d’argento … Era giovane quanto lui e il pescatore, cominciò ad aspettarlo, puntuale, in riva all’unico fiume, che bagnava le terre del reame; non c’era pioggia, temporale, che gli facesse cambiare idea, neppure il gelo, dell’inverno seguente …”

Chiudi il libro.

“E poi?” – ti esorto, infantile, lo ammetto.

Mi guardi, sembri compiaciuto – “Tu non cambierai mai, Jay”

Deglutisco.
Sai uccidermi come nessuno, Colin, con questa tua dannata tenerezza.

Prosegui, ma senza leggere.

“Una fata, innamorata del principe, lo libera dalla sua maledizione, alla prima nevicata della stagione; il pescatore lo attende invano, quella notte, ma l’altro, così felice di essere tornato ad essere come gli altri, si dimentica di lui, ma solo fino all’alba, poi corre a cercarlo: troppo tardi … Cristallizzato e immobile, il suo ormai più caro amico, giace senza vita, sulla riva, dove avevano trascorso lunghe ore a parlare e a innamorarsi, senza neppure saperlo. Il principe disperato, invoca la strega, che accorre, soddisfatta di vederlo piangere e disperarsi; lo diventa ancora di più, quando lui le chiede di accendere il sole, su quel grigio mattino, il sole più caldo di sempre, per salvare il suo adorato pescatore, condannando lui, di nuovo, ad una notte senza stelle e lei lo accontenta, ridendo sarcastica.”

Silenzio.

Tu riapri la copertina, sul fondo, estrai un disegno e me lo mostri.
Il principe e il pescatore.

Si tengono per mano.

Un’immagine, incerta nei contorni, ma vivida nelle sue sfumature essenziali.

Il manto celeste, del primo, i calzoni rossi, al ginocchio, del secondo.
Le tenebre sullo sfondo ed unicamente la luna, generosa di un bagliore rassicurante.

“E’ di James e questa, la sua storia preferita” – dici a mezza voce.

“E’ … E’ stato bravissimo, il tuo campione” – il mio respiro, fatica a farsi largo tra le parole.

Annuisci.

“Il principe, ogni notte, vincendo l’oscurità più assoluta, guidato dagli abitanti del bosco e dai folletti, riusciva a ritrovare il suo pescatore, accendendo la luna, nell’unico modo, che, insieme a lui, aveva scoperto per caso …”

Inarco un sopracciglio, senza avere mai smesso di fissarti, esigente.

Mi baci, prima con un’innata timidezza, poi con foga.

“Neppure tu, Colin, cambierai mai” – provo a dirti, prima di un secondo bacio, più profondo e caldo.

E, nonostante il tuo stringermi a te, non ho mai lasciato cadere tra i cuscini, l’immagine del nostro destino.

The end






lunedì 10 settembre 2018

One shot - Alle porte del sogno


One shot – Alle porte del sogno

“Ho parlato di te, ad una goccia d’acqua.
Lei non ha mantenuto il segreto …
E da oggi, la pioggia, ripete di continuo il tuo nome.”  ***




Londra, 5 settembre 2018
Pov Tom Hiddleston




Le nostre mani, dietro la schiena di Boseman, si sono sfiorate appena per un attimo, uno solo, Chris.

Era il solito segnale, era qualcosa di nostro.

Questa volta, però, non ti avrei raggiunto.
L’intenzione, solida, era incastrata nel mio cervello stanco.
Come me, del resto.
Stanco, stufo marcio per tutto, da mesi.

Tutto cosa?

Di un ieri, che non sarebbe mai diventato un domani.
Per noi.
Per te e per me, Chris.

E poi questa fermezza, che mi brucia dentro, mentre ti vedo andare via, svanisce.

Tremo.

Sorrido ancora ai fotografi, ai colleghi, qualcuno mi offre da bere, altri mi parlano di progetti, dell’avvenire, dietro l’angolo.

Tu e io, Chris, non ci siamo mai arrivati, a quell’angolo.

Alle porte del sogno, noi ci siamo fermati.



Qui, ora, la porta si chiude, tu ci incolli la mia schiena, come uno dei miei sorrisi stampati, su di un volto, che ha smarrito quella giovinezza, dove tu, anche tu, un tempo, sei stato innocente.

Ingenuo.
Come nessuno.

Mi baci.
In realtà mi divori con rabbia.
Eppure, il colpevole, non sono io.

“Chris” – a fatica respiro il tuo nome, tra le nostre bocche, i denti, la tua voglia di non smettere.

Per non parlare.
O parlare il meno possibile.

In fondo ci diremmo le stesse, identiche cose, dell’ultimo incontro, di una telefonata all’alba, mentre tu corri sulla spiaggia davanti a casa ed io porto fuori il cane, a due estremità del mondo, così distanti, ma mai quanto noi.

Adesso.

E se solo potesse bastare un “ti amo”, uno dei tuoi, quasi categorico, invadente, necessario, se solo potesse …

Risolvere.

O stancarmi
Anche di te.

Di quello, che mi dice il mio agente, di quello, che non voglio più leggere sui dannati social, dei sussurri per strada, delle occhiate di chi, si aspettava chissà cosa da me.

Sì, da me.


“Devo andare via, Chris”

“Via? Via dove Tom?”

E me lo chiedi disperato.
Cosa ti è successo?

Da sempre, tu sei quello che ha mille certezze.
Hai ragione.

Cosa ti manca?
Una famiglia perfetta, una carriera stellare, era ciò che desideravi.

E per chi aveva qualche aspettativa professionale, tu sei stato capace di sorprendere anche il più scettico.

Bravo.
Bravo Chris.

Vorrei solo fuggire, da questa camera d’albergo, dalla notte, che tu hai acceso nel mio cuore, facendomi sentire al sicuro.

Dalle tue parole.

“Non cambiare mai questa luce, che hai negli occhi, Tom, quando mi guardi, quando nessuno può derubarci da ciò, che loro non avranno mai, ok?”

Annuivo, intossicato dalle tue carezze, dalla totalizzante invasione, del tuo corpo dentro al mio.

Come se il nostro mosaico fosse perfetto.
E lo era.

Per davvero.


E quell’altro, che era giusto per te, guardato da distante, poteva sembrare altrettanto.

Eppure, quel pezzo, l’ultimo, all’altezza del cuore, aveva degli angoli smussati, dalla tua determinazione.
In pochi potevano accorgersene.

Ti respingo.
Ti fisso.

Riprendo fiato.

“Tom …”

“Tom cosa? Cosa vuoi?! Cosa diavolo pretendi ancora da me?!”

Togli la giacca, getti la cravatta sul letto, sei teatrale, ma non ridicolo.

La nostra tragedia quotidiana.

Giro il pomello, gelido quanto il mio stomaco.

La camera viene illuminata da un lampo, poi un tuono risuona nel buio.

“Se te ne vai, Tom, allora sarà finita, una volta per tutte, ok?”

Ridacchio.
Poi rido.

Torno a scrutarti, inclinando il capo, prima a destra e poi a sinistra.

Tu rigido.

Potrei ucciderti.
Così non ci sei più.

Così non esisterai mai più, Chris Hemsworth.

Dio mio …

Dove mi hai fatto finire?

Tu, che non sei stato cattivo, mai.

Tu, il collega perfetto, l’amico perfetto, il padre perfetto, il marito perfetto.

Elsa, tua moglie, è troppo intelligente, per non averti capito.
Decodificato.

Ti ama.
Ti accetta, ha quanto le serve, da te, per essere felice.

Ognuno, si è preso un pezzo di te, Chris.

Ci penso.

Mi arrendo, non rido più.

Accenni un sorriso.

Ti avvicini.

“Io, io non ci riesco, Tom” – e mi sposti una ciocca di capelli.

Segni i miei zigomi, con le labbra umide di pianto.

Il mio o il tuo, che importa?
Dove sono le tue mani, Chris?

E quelle ali, che non sanno volare, ma conoscono il modo, di avvolgere e confortare.

“Io ti amo, Tom”

E sarebbe il pezzo di te, il frammento del mosaico, più importante.

La città precipita nell’oscurità.
Là fuori ruggisce una tempesta, che non ci fa paura.

I rumori si fanno ovattati.

L’affresco, che decora il soffitto, sembra animarsi, tra sprazzi di luce intermittenti.

Ti stendi sopra di me e, come un groviglio di rovi, mi terrai in ostaggio, sino al mattino.
Artigli i miei fianchi, come un predatore, che non porrà mai fine al suo volo.
Ti muovi lento e il tuo sopruso, è saturo di tenerezza.
Mi baci, profondo e continuo ed è come affogare, ma poi risalgo, avvinghiato al tuo busto, che sussulta, unisono al mio, che si disseta e poi si svuota, in mille rivoli, portandoci al largo.

Lontani da tutto e tutti.

E’ solo un istante


“Io non rinuncerò mai a te, Tom, mai”






Stretto, tre le mie braccia e la stoffa della giacca sgualcita e fradicia, torno verso quell’angolo, dove chiuderò una porta, contro la quale, tu, non mi bacerai, in una casa, all’altro capo di un mondo, imperfetto e silenzioso, tra libri, polvere di carta e sole, lo sguardo del mio cane, la sua coda allegra, a reclamare una passeggiata, senza badare ai vestiti, alle scarpe, ai capelli spettinati, agli occhiali non alla moda, ai calzini magari spaiati, magari no, dipende dai sogni del mattino, dal caffè rimasto dalla sera prima, in una tazza, vicina ad un copione, che mai avrò il coraggio di interpretare.

Il telefono spento.

E tu non mi cercherai.

Tornerai anche tu, dove sai.
Dove vuoi restare.

“Perché così mi sento al sicuro, Tom!”
“E con me come diavolo ti senti, allora?!” – l’ultimo mio rigurgito di risentimento.
Silenzio.
Affannosamente cedi – “Felice Tom … Semplicemente felice.”

E’ come girare in tondo, senza potersi fermare: al centro del cerchio una voragine, oltre i bordi, un abisso.

Senza scampo.

Mi sono rivestito meccanicamente, l’urgenza di sparire.

Io non ti reclamerò.
Io, non ti disturberò.

Io proverò ad andarmene.


Anche se la pioggia continua a parlarmi di te.


The end


Un grande abbraccio alle amiche Jessica, Ele106 e la mia piccinaccia Cielo_a_metà <3

--- Alle porte del sogno – Irene Grandi
Open one shot – Questa meravigliosa frase, non è farina del mio sacco … 😊