martedì 24 settembre 2013

ZEN - CAPITOLO N. 188

Capitolo n. 188 – zen


Brent storse le labbra.
Louis lo aveva ascoltato con attenzione.

Cindy aveva capito, di lui e di Matthew ben prima che lui parlasse, dopo la notizia dell’improvviso trasferimento a Los Angeles.
Una strana coincidenza, così che la verità era traboccata dalle iridi del capitano, senza neppure troppa fatica.

Matthew, in compenso, al solo pensiero di tornare in California, da quei parenti omofobi ed odiosi, si era tirato indietro, non senza rammarico.
Anche se la vita di caserma non era ciò che voleva veramente, lì c’erano i suoi amici, gli ex compagni di scuola, con cui giocava ancora a basket il mercoledì sera ed una sequenza di abitudini, difficili da abbandonare, a soli diciotto anni.

Lou lo strinse.
“Mi dispiace … So che ci tenevi a Matt …” – e gli diede una carezza, delicata e fatta della sua stessa sofferenza.

Erano sulla terrazza della suite, che Lux aveva disdetto per il pomeriggio: c’erano i bagagli pronti nel salottino, dal quale Harry li stava spiando, senza sapere che alle proprie spalle, Vincent stava facendo lo stesso, carpendo il dialogo tra Louis e Brent, sempre più in armonia.

Haz si voltò, sconfortato, accorgendosi di lui.
Lux allungò la mano ed Harry la intrecciò alla sua, gelida.
“Su vieni, andiamo a prenderci un caffè …” – propose rassicurante il francese e scivolarono via, lasciando Lou a consolare Brent, con i suoi entusiasmi, i suoi progetti.

“Gli ho reso la quota per il ristorante … Ora sono al verde, perché ciò che rimaneva l’avevo investito nel matrimonio, ormai annullato …”
“I soldi non sono un problema Brent, te l’ho già detto” – e gli sorrise solare – “Vedrai che sistemeremo ogni cosa, appena saremo al sicuro”
“Da papà?”

Louis annuì, arrossendo.
“Lui non se la sa spiegare … questa promozione intendo”
“Eppure mi hai raccontato che dopo avere ricevuto la telefonata dal generale,era su di giri”
Brent fece spallucce – “Sembrava una collegiale … Certo non si possono mettere in discussione gli ordini di una simile autorità, ma mi chiedo come abbiate fatto”
“E’ … è la nostra nuova famiglia Brent … Ti ci abituerai” – e gli fece un occhiolino simpatico.


Hugh scivolò nel suo collo, mentre gli stava per venire dentro.
Jim lo avvolse quanto più poteva, con gambe e braccia, percependo ogni goccia di lui, scorrergli sino al cuore.

Gemette, aggrappandosi a Hugh, come la migliore delle dipendenze, ma l’intento era anche quello di sfuggire al suo sguardo nella penombra.
Quello di Mason era umido di lacrime.

Stremato, l’analista gli sorrise, contandosi le pulsazioni, scherzoso anche in quegli attimi di intimità.

“Che hai Jim?”
“Niente … pensavo …”
“A cosa?” – gli chiese dolce, tralasciando il suo innato sarcasmo.
Si stava ammorbidendo, dopo avere adottato Nasir: era una continua scoperta, da parte di Mason, della sua indole fatta di tenerezza, di presenza, di attenzione e disponibilità.

“Mi  guardavo allo specchio, prima … e non ero bello come Chris o Tim o Jimmy” – rivelò smarrito.
“Non lo sei stato mai, così loro non saranno mai come sei tu, Jim” – e lo baciò profondo.
Jim si commosse: interruppe quel bacio, perché voleva guardarlo, guardare l’uomo che amava, di cui era ancora innamorato, che aveva sposato.

I vagiti di Nasir, però, interruppero quel loro momento.
“Vado io Hugh … Vuoi qualcosa da bere?”
“Latte e brandy e mi raccomando, non confondere i biberon!” – e rise, infilando una maglietta al marito, mentre lui indossava i boxer.


Brendan si lisciò i baffi, dopo avere parcheggiato la sua auto nei box sotterranei.
Individuò gli ascensori, per raggiungere la terrazza naturale, sulla quale si affacciava l’ingresso del palazzo, dove avrebbe trascorso quel periodo di tre mesi, per uno scambio di collaborazioni internazionale.

“Potrei anche tagliarmeli … se me lo chiedesse la persona giusta” – pensò ad alta voce, mentre scendeva.
“Ehi, parli da solo?”
“Chris …? Ciao, non ti avevo visto”
“A quanto pare è una tua abitudine.” – e gli passò oltre, per premere il pulsante e fare tornare la cabina panoramica, completamente a vetri, al loro livello.

“Ti aiuto con i pacchi?” – disse lo psicologo, ammiccando.
“No, grazie”
“Io ti sono antipatico, vero?” – chiese schietto Brendan.
“No”
“Lo dici sempre, Christopher?” – e rimarcò il suo nome.
“Cosa?”
“No.” – e sorrise.
“Quando serve” – replicò serio.
“Ok … Ti chiedo scusa, se sono stato inopportuno, ma sei … uno schianto”
“Diretto come un treno, ma a me i complimenti infastidiscono”
“Anche quelli di Steve? Impossibile” – ribatté altrettanto asciutto.

“Con Steve è diverso e poi lui non …”
Si bloccò: non voleva aprirsi, per nessun motivo.

“Lui …?”
Le ante si schiusero ed un’ombra invase lo spazio tra loro due.

“Ciao Christopher, tutto a posto?”
“Ivan … ciao …”
“Salve …” – disse Laurie, guardandolo dal basso in alto, non certo per snobbarlo, bensì per ammirarlo letteralmente.
Nonostante la temperatura non mite, Ivan indossava un vogatore nero, sui pantaloni della tuta Adidas, nella stessa tinta.
Null’altro, a parte le scarpe, che Brendan valutò essere almeno un quarantotto di calzata.

“Buonasera, lei chi è? Sta disturbando Christopher?”
“Sono … un nuovo vicino di casa, mi chiamo Brendan Laurie, piacere” – disse calmo.
“Laurie?”
“Sì Ivan, è il fratello di Hugh, sono entrambi analisti” – chiarì il leader dei Red Close, sorridendo finalmente.
“Ok”
“Sì, è tutto ok Ivan, vieni dalla palestra al quinto piano?”
“Infatti Chris …” – e lo guardò, con un’improvvisa timidezza – “I soliti allenamenti”
“Andiamo a bere qualcosa, sarai assetato” – propose il cantante ed il body guard avvampò.

“Ragazzi io vi lascio, buon proseguimento” – si inserì Brendan, anche sgusciando in mezzo a loro, quasi cristallizzati nel guardarsi, per infilarsi in quello che gli ricordava un sarcofago di cristallo.

Ivan e Chris neppure lo salutarono.


“Sono stato anche un fratello per lui, sai? I primi tempi … quando eravamo solo amici e colleghi di università”
Haz glielo stava raccontando, davanti ad un affogato alla nocciola.
Erano in una gelateria, deserta a quell’ora.

“Louis sta recuperando un rapporto essenziale, dobbiamo … dovresti essere comprensivo, come del resto è stato lui, quando avete avuto dei problemi Harry” – replicò dolce l’affarista.
Era gradevole, anche la maniera in cui pronunciava il nome di Harry, con quell’accento vivace, come i suoi occhi azzurri, davvero belli: il giovane li notò in quell’attimo di confidenze, di solidarietà, incredibile per certi versi.

“Tu un surrogato di padre, io di fratello … ci hai mai pensato, Vincent?”
“Siamo tutti un po’ … tappabuchi” – rise – “Insomma colmiamo i vuoti … Lou ha ammesso di essersi invaghito, prima del colonnello, poi del suo primogenito, erano figure solide e, anche se lo opprimevano, alla fine erano la sua famiglia, erano tutto ciò che Louis aveva. Ci si innamora dei carnefici, pensa di un padre e di un fratello …” – e sospirò.
“Forse hai ragione, ma è come se Louis mi sfuggisse, ora che …” – ed inghiottì un singulto – “Ora che ha un’alternativa o meglio ha ciò che voleva indietro dalla vita, dal destino, cioè Brent ed il suo affetto … il suo amore”
“Bene, ho un vantaggio su di te, mon petit garcon, visto che il vecchio Tomlinson non tornerà mai sui propri passi, troppo coglione!” – rise allegro, dando poi un buffetto ad Harry.
“Già, la proiezione di lui rimani tu e quindi Louis dovrà … accontentarsi” – e gli fece una smorfia, sorridendo.
“Non ne approfitterò …” – disse più composto, ma senza alcun astio: Lux desiderava equilibrio e, più di ogni altra cosa, non perdere Louis, facendolo il trofeo, a cui agognare in un’inutile competizione tra sé stesso ed Harry.

Alla fine, l’esperienza gli aveva insegnato che forzare le cose, le scelte, le situazioni, portava ad un fallimento solo rimandato.


“Hugh presto vieni!!”
Jim lo chiamò dalla cameretta di Nasir.

“Che succede?”
Laurie si precipitò, dimenticando il bastone e quasi cadendo, se non ci fosse stato lo stipite a sorreggerlo.

“Ha la febbre! Quasi quaranta, chiama un’ambulanza, fai presto, ti prego!!”


“E’ un po’ strambo … come i suoi parenti”
Christopher rise, descrivendo Brendan, anche per stemperare il disagio che leggeva sul volto di Ivan.
“A me non piace … E poi come si veste? Nemmeno i papponi che conosco a Mosca, si conciavano in quel modo negli anni ottanta” – e rise tirato, sorseggiando un assurdo beverone di colore verde mela.

“A proposito, come sono andate le vacanze in patria?”
“Bene, ho portato un regalo per Lula, una matriosca … Spero gli piaccia”
“Certo … Forse è un dono più per una bimba” – ed arricciò il naso, perfetto tra quei due cristalli, illuminati dai faretti del bar, in cui si erano accomodati per dissetarsi.

“Ops hai ragione Chris … Gli regalerò la mia scacchiera portatile”
“Giochi a scacchi?”
“Sì … e tu?”
“Steve ha provato ad insegnarmi … sì insomma me la cavo …”
“Devi tornare da lui?”
“Non c’è, è a Boston, mentre Clarissa l’abbiamo lasciata dai suoi genitori … Sono … simpatici …”
“Sicuro?”
“La famiglia di Steve mi ha accettato, non posso lamentarmi. Lui è stato fantastico, mi ha … raccattato, dopo una serie di delusioni pesanti” – rivelò assorto.
“Mi dispiace Chris”
“Ho persino” – inspirò greve – “Ho persino tentato il suicidio …”

Era così semplice confidarsi con Ivan, gli dava una strana sicurezza.

“Mio Dio … addirittura? Stento a crederci …”
“In effetti nessuno ci riusciva, perché avevo tutto, almeno così credevano … gli amici, chi lavorava insieme a me da anni … Sbagliavano”
“Ma tutto si è sistemato, vero?” – e sorrise.
“Certo.” – anche Chris sorrise, fissandolo.
Ivan era affascinante, solido come una roccia, ma, nel contempo, chiuso come tale.


Geffen fu svegliato dalla telefonata di Scott.

“Glam devo tornare in California, potresti sentire dov’è il jet di Antonio?”
“Il … il jet? Ma che ore sono …?”
“Le sei, so che è presto, scusami”
“Come mai sei così agitato?”
“Nasir sta male, una sospetta leucemia, ma non sono sicuri …”
“Miseria, aspetta … sì dunque, è in Italia, qua vicino, me l’ha detto ieri, sono scesi a Roma … Lo chiamo, dammi un secondo”


Mason aveva la fronte incollata alla parete del suo studio.
I denti piantati nelle nocche di destra, mentre tremava e singhiozzava.

“Jim …”
“Non è … non è possibile …”
“Jim ascoltami”
“No!! Non deve morire, non può andarsene così!!” – urlò disperato.


Si erano riuniti nel salone, raccogliendo i bagagli in fretta e furia, mentre Scott li aggiornava in video chiamata, dopo avere ricontattato Geffen, per sapere a che punto  fossero con l'aereo.

“Quindi gli occorre un trapianto, Scott?” – chiese Colin, mentre allacciava i giubbotti alle bimbe.
Jared raccoglieva le ultime cose insieme a Shan e Tomo.
Lula stava rannicchiato sul davanzale, stringendo Brady, a palpebre serrate, cantando una nenia haitiana.

Kevin, Tim e Glam lo guardavano, non senza inquietudine.

“Sì, ma i possibili donatori non sono idonei, intendo dire quelli che l’ospedale ha in archivio.”
“Ok, ma noi possiamo fare qualcosa, vero?” – si intromise Robert.
“Possiamo farlo, ma potremmo risultare non adatti, il che sarebbe davvero una sfortuna tremenda … Nasir in compenso non ha parenti”
“Avete parlato con la fondazione?” – “Sì Glam, ma è stato un buco nell’acqua”

“Come funziona, per la questione dell’intervento?” – domandò Jude.
“Si procede con un prelievo di sangue, poi si passa al prelievo del midollo, se si risulta compatibili ovvio”

Geffen aprì la blindata – “I taxi sono arrivati. Anche se sono una carcassa, io lo farò, ok Scott?”
I presenti si scambiarono un’occhiata veloce.
Ed esaustiva.

Scott sorrise – “Grazie ragazzi … Andiamo ora e sbrighiamoci.”



 HUGH AND JIM




 IVAN

CHRIS

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