One shot – Fino alla fine
Pov John Watson
Lui combatteva anche per ore; ed io a guardarlo, per lo più attonito, vista la furia che scaricava in quegli incontri clandestini di boxe.
Scommettevo, sapendo di vincere, quando lo aveva fatto arrabbiare, come quel pomeriggio in Backer Street.
Si ostinava nel nascondermi le cose, mentre provavo a riunirle in bauli e valige, per trasferirmi nel mio nuovo appartamento: si fosse limitato a questo, il trasloco, magari in un locale più comodo ed adatto alla mia professione di medico, invece la ragione era ben diversa.
Il fidanzamento con Mary ed il conseguente matrimonio, non ancora fissato.
Tergiversavo, senza saperne l’esatta ragione, anzi, senza volerla ammettere: volevo che lui, Sherlock Holmes, si abituasse a quel passo, un poco come aveva fatto, con il mio corpo, la prima volta che lo avevo preso con forza, sapendo che lui voleva, ma negava, scalpitando, sfuggendomi, con energica ribellione.
Era ed è mio, doveva capirlo, sottomettersi, piangere mentre io godevo: sono un bastardo, nessuno lo direbbe, dalla mia futura sposa alla vittoriana padrona di casa, dalla zingara che mi ossequia all’angolo della strada, mentre all’altro una puttana mi ispira qualche bravata da scapolo.
Ecco, Holmes è la mia puttana, glielo dirò più tardi, quando salirà al primo piano di questo posto orrendo, un’arena di assi, terra e paglia, sputi, grida e sudore: quest’ultimo imperla il suo sembiante scolpito ed offeso in più punti, glieli ho curati personalmente, per poi ricoprirli di baci, mentre le mie dita scavavano nel suo canale recondito di umori, tra quelle gambe, che costringevo a piegarsi, mentre spingevo e colpivo la sua porzione di carne, pronta ad esplodere di piacere, gettando Holmes nel più assurdo ludibrio, innalzando i miei ansiti nella più sfrenata lussuria.
“Mi apra accidenti!!”
Le mie urla sembravano alzarsi verso il lucernaio, come il fumo ed il fiato degli avventori, con le loro pipe, grezze e maleodoranti.
“Holmes, allora??!!”
Un cigolio, due passi indietro, la sua schiena ad accogliermi, non voleva neppure guardarmi.
“Dobbiamo … dobbiamo parlare Sherlock.” – è avvezzo alla mia gentilezza, del resto siamo due persone civili ed istruite.
La bestialità la riservo a quel lato di me, che non riesce a fare a meno di lui, ma che mai cederebbe alle lusinghe amorevoli, di quel suo cuore incredibile: non sono ciò che Holmes pensa o che pensa di essere egli stesso, non mi importa, non mi riguarda, no.
No …
“Cosa vuole Watson?” – chiede scarno, piegando la camicia sudicia, per poi versare dell’acqua dalla brocca al catino, dove si laverà sommariamente.
Il camino è acceso, se quel buco nel muro denso di crepe puo’ definirsi tale: eppure scalda a sufficienza la stanza disadorna e vetusta, in cui lui spesso si ferma a dormire, a ragionare, a meditare.
Fugge da me, in quel malsano angolo, vuoto almeno delle sue scartoffie e cianfrusaglie, persino più pulito.
C’è un pagliericcio e lì non l’abbiamo mai fatto.
“Come si sente?”
“Cosa gli importa?”
Stiamo duellando, in maniera più sottile ed elegante, non siamo barbari, come il maniscalco con cui si è preso a pugni e sberle pochi minuti prima.
Holmes direbbe che quel tizio è di gran lunga più degno di me, ne sono certo, ma sono soltanto provocazioni di un uomo innamorato e deluso.
“Posso … posso controllare?”
“Sto benissimo dottore, adesso vada, ha di meglio di cui occuparsi, pensi alle escoriazioni della graziosa Mary.”
“Escoriazioni? Cosa vaneggia?”
“Escoriazioni, lividi, tumefazioni invisibili ai suoi occhi stupidi, Watson, eppure vedrà che baleneranno in superficie in un’unica soluzione.”
Lo scruto, mi sento davvero stupido, non riesco a decifrare quel suo tranello, non può essere altrimenti.
“Si spieghi Holmes.” – chiedo serio, togliendomi il cappotto, andando a sedere sul davanzale, dove alcune bottiglie vuote tentennano lievi, quando mi sistemo la giacca.
“Una missiva di auguri e congratulazioni, mi riferisco a questo. L’ho spedita stamani a miss Mary, condendola di aneddoti coloriti, su di lei e me … diciamo poco … convenzionali.”
Un sorriso beffardo, che diventa una smorfia, credo a riflesso di quella che sto facendo io.
“E’ uno scherzo, vero …? Di pessimo gusto peraltro Holmes …”
Il mio fiato si spezza: perché mai una giovane intelligente come Mary, dovrebbe dare credito ad un personaggio amorale come Sherlock?
Glielo ho descritto tale da sempre, anche se nell’incontrarlo, lei stessa lo aveva rivalutato, pur riconoscendone la stravaganza.
“I nostri esercizi carnali, credo la divertiranno, anche alcuni disegni, esplicativi … a carboncino, essenziali, ma precisi.” – e ridacchia, stappando con i denti un’altra birra.
“No, dico, è forse IMPAZZITO??!!”
Mi sentivo come un vulcano in eruzione, la gola rinsecchita, come le mie iridi, ma lui era fiero in ciò che affermava e convincente, ovvio, gli riusciva alla perfezione quel giochetto.
Ero passato da Mary in tarda serata, senza trovarla, una cena dalla zia in campagna, questa era stata la motivazione riferitami dalla madre, ma in quel suo tono gelido, che all’istante mi era sfuggito, forse era racchiuso già il disprezzo verso di me.
La formalità di quella famiglia semplice, ma orgogliosa della figlia istitutrice presso una nobile casata, mi infastidì dal principio, ma i futuri suoceri erano altresì generosi, tanto da permettermi un futuro da giocatore incallito, tenuto a freno unicamente da Holmes e con enormi sacrifici.
Mi sarei sfogato, lo riconosco.
“Cosa sta elucubrando Watson? La maniera di uccidermi, forse? Troppo tardi, il servizio postale londinese è assai efficiente, sa?”
“La smetta di dire idiozie!! Lei mi ha rovinato!!”
Adesso è il suo petto pulsante, che avanza verso il mio volto, sul quale si scaglia un fendente talmente carico di orgoglio e brutalità, da schiantarmi contro il vetro della finestrella, dai profili marci e verdastri.
Il crepitare delle scintille si fonde con quello dei cocci umidi di nebbia, ma è solo un passaggio, da quella posizione ricurva, ad una distesa, la mia faccia schiacciata sul pavimento, il peso di Holmes a bloccarmi, i polsi in balia delle sue falangi tremanti – “Taci fottuto bastardo!!”
Ha ragione su tutto: sono ciò che dice, non improvvisamente, ma da quando mi sono impuntato nel volermi sottrarre alle sue abitudini, alle regole non scritte di quell’uomo così geniale, che sembrava ciondolare in dimensioni artefatte, mentre invece era più solido e lungimirante di mille saggi messi in fila davanti a Backer Street.
Vorrei riprendermi quel sorriso, che gli donavo, ad ogni risveglio, quando piombava nella mia camera, sottoponendomi casi intricati ed assurdi, scompigliandomi i capelli, nascondendo un biglietto sotto al mio cuscino, § Per tutto ciò che mi darai John, fino alla fine, io … § - e non riusciva mai a concludere quel concetto.
Si ritrasse di colpo, finendo in fondo a quel tugurio.
Potevo sentire nei suoi respiri il dispiacere, per avermi fatto male: stavo sanguinando dalla bocca, era un graffio, nulla di più.
Inspirai, raccogliendo nei palmi, quelle due lacrime, che stavano rigando il mio viso avvampato di imbarazzo e tardivo pentimento.
“Io … ti amo Sherlock … fino alla fine.”
Lo dissi, come una liberazione.
Invece era consolatorio, era avvolgente, quella sensazione per averlo reso partecipe di ciò che realmente sentivo per lui, anche se temevo fosse inutile.
Mi passò accanto, lasciando scivolare una busta, indirizzata a Mary, davanti alle mie scarpe.
Uscì, con il mio pastrano addosso ed i pantaloni, scalzo, senza cappello.
Aprii, come alienato, quell’involucro di pergamena giallastra: vidi noi, allungati sotto ad una quercia, abbracciati e completamente vestiti, un frammento racchiuso in quel passato romantico, che non avevo lasciato dispiegare, perché troppo spaventato dalle conseguenze.
Una didascalia spiccava al di sotto di quello schizzo:
§ Miss Mary, abbia cura di John, glielo affido, con tutto l’affetto di un amico, a cui potrà sempre rivolgersi, quando le circostanze lo renderanno indispensabile; per il resto basterà il suo amore incondizionato. Grazie. SH §
Corro.
Inciampo.
Riprendo a correre.
Sto singhiozzando, mentre spintono avventori di pub ancora aperti, marinai in licenza ed ubriachi che mi serrano il cammino, chiedendo qualche spicciolo: io sono l’essere più miserabile e povero, senza il mio Sherlock, ma loro non possono saperlo.
Invece dovrebbero, tutti, dovrei urlarlo al resto del mondo, quanto io amo il mio … il mio piccolo Sherlock, sembra dimezzato, rannicchiato sulla panchina in pietra del molo, da dove siamo salpati per una ricognizione sul Tamigi la settimana precedente.
E’ una pioggerellina lieve, ma fastidiosa, quella che zampilla sulla stoffa, che non riesce più a scaldarlo.
Fermo una carrozza, dopo averlo preso in braccio, dando poi ordine al cocchiere di riportarci a casa.
Casa nostra.
Una volta entrati mi faccio largo tra quegli inutili bagagli, che disferemo insieme, glielo dirò all’alba, quando tornerà a sorridermi.
Lo immergo nella vasca, mi unisco a lui, frizionandolo, baciandolo, senza pretendere alcun dibattito, mi bastano i suoi occhi, così grandi, dove potrei perdermi, sentendomi al sicuro, adesso.
Restiamo avvolti in una coperta, sotto ad ulteriori coltri, sigillati l’uno all’altro, il suo viso incastrato nel mio collo, il suo fiato, cadenzato dal sonno, umido, caldo, come il suo addome, il suo sesso, che accarezza il mio, senza alcuna lascivia.
Le mie braccia lo tengono in ostaggio, non se ne andrà più via … Ed io da lui.
Lo amo così tanto, da morirne, se necessario, ma non mi importa, lui sarà con me, sino alla fine.
THE END
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