Capitolo n. 296 - gold
L’aereo era decollato ormai da mezz’ora.
Robert e Jude rinunciarono al volo notturno, per non disturbare troppo il metabolismo di Camilla, preferendo una comoda suite, in un albergo del centro di Dublino.
La piccola dormiva serena, nella piccola cameretta adiacente il salottino, che la divideva dalla stanza in cui si erano sistemati i genitori.
Il baby control rimandava di tanto in tanto i suoi vagiti simpatici, ma in quell’occasione né Downey e tanto meno Law, li seguivano con battute divertite.
Jude lo stava opprimendo.
Erano singhiozzi e non parole dolci od appassionate, quelli che accompagnavano il suo incedere nel corpo di Robert, bloccato sotto, il suo petto così attaccato a quello del compagno, da creare un attrito bruciante, ma mai quanto quello provocato dalla morsa delle sue dita, intorno ai polsi dell’americano, alzati e compressi all’altezza della sua stessa nuca.
I suoi fianchi implodevano tra le gambe di Downey, ma lui non diceva nulla, teneva solo le palpebre serrate, pensando che fosse giusto anche così, visto che apparteneva a Jude, in un modo che nessuno avrebbe capito mai.
Lentamente si liberò da quella stretta di falangi stremate, solo per potere accarezzare la schiena del suo ragazzo inglese ed i capelli, assaporandone il profumo, come se bastasse a distaccarlo da quel dominio assoluto.
Se lo sentiva arrivare ad una profondità, capace di spezzarlo visceralmente ed il puntarsi sulle ginocchia, da parte di Jude, sembrò peggiorare ulteriormente l’atto, nel suo apice, che un tempo era stato la cosa migliore tra loro.
Avrebbe voluto cullarlo, per riportare la gioia in quegli occhi, che Robert non si stancava mai di ammirare, cercando, per ritrovarlo nitido e bellissimo, l’amore che l’altro provava per lui.
Un’unica parola, si affacciava adesso alla sua mente, basta, sì basta, ora smettila, ti prego, anzi ti supplico, stava piangendo, stava implorando, nel silenzio, di uno spasimo, che non era piacere, ma solo vergogna.
Improvvisamente si sentì vuoto, abbandonato da quel suo invasore, che avrebbe voluto arrogante, così da poterlo odiare un minimo, invece il suo tono era flebile, i suoi palmi madidi schiacciavano il viso perfetto, come a pentirsi, dopo avere visto le lenzuola macchiarsi di umori ed un rivolo di sangue.
L’odore di sesso stava investendo le narici di entrambi, ma era di ferro e muschio, di sale ed argento, come le iridi di Jude, tremanti, incredule.
“Rob … Rob …” – non smetteva di ripetere il suo nome, ma Rob non fece altro che riaccoglierlo, girandosi su di un fianco, massaggiandolo con capacità e devozione, eccitandolo nuovamente – “… prendimi ancora Jude …” – sembrò agognare, ma poteva essere tutto, in quella sua espressione, in bilico tra la follia di ciò che li univa certe notti e la consapevolezza che nessuno li avrebbe separati mai: né Colin né nessun altro.
Robert cominciò a masturbarsi, umettandosi le labbra e deglutendo nell’attesa di Jude, che afferrò il suo sposo per la vita, cinturandolo con l’avambraccio sinistro, per affondare una seconda volta, in quell’abisso carnale, lubrificato e sconvolgente, mentre con la mano destra artigliava la sbarra del letto, assumendo una sembianza atletica ed un movimento sinuoso e virile, che li riportò presto a venire, dilagando nello stesso, incredibile, istante.
“La cameriera ha finito. Camilla a che punto è, amore?”
Robert era in accappatoio: aveva chiesto il cambio della teleria e con dolcezza si stava rivolgendo a Jude, impegnato a dare una camomilla alla figlia.
“Quasi finito … Rob ascolta …”
“E’ tutto a posto.” – mormorò, baciandolo sulla tempia, riprendendo la loro cucciola, per rimetterla a nanna.
“Robert ho … ho bisogno di te …” – disse piano, timidamente, stritolando i braccioli della preziosa poltroncina dove stava seduto in pigiama e vestaglia.
Downey lo scrutò – “Potresti anche indossare uno straccio e non questo costoso completo e saresti sempre il mio angelo Jude … Prima, a pochi passi da qui dove siamo con il dono più prezioso che ci siamo fatti, eravamo sempre e comunque noi. Ok … ?” – e sorrise.
Law annuì, scivolando con Robert ai piedi della culla, accasciandosi sul suo addome sempre allenato, cospargendolo di baci, sotto alla t-shirt di due taglie più grandi, che copriva i suoi boxer aderenti e sensuali.
Il cottage di Colin fu invaso dalla maggior parte degli ospiti: Meliti ripartì immediatamente per una vacanza lampo in Sicilia, mentre Owen e Shannon, portarono July dai nonni londinesi.
Glam, Kevin e Lula, furono ospitati da Farrell, così come Tomo e Chris, insieme a Josh, Pamela e le gemelle, scortate ovviamente da Phil e Xavier.
I pargoli dell’attore irlandese e di Jared, si ritrovarono nelle camere della soffitta ristrutturata da poco, creando quell’adorabile confusione, in cui chiunque avrebbe dimenticato i propri problemi.
“Come va il mal di testa Cole?”
“Passato … non devo bere assolutamente, non posso farlo …”
“Un po’ di champagne non uccide nessuno …”
“Ma fa fare cazzate.” – disse distrattamente, cercando un giornale da usare come ventaglio.
“Quali cazzate?” – domandò perplesso Jared, infilandosi sotto il copriletto in cotone e seta.
“Nulla … era un modo di dire.” – e ridacchiò, sforzando una noncuranza, alla quale Jared non diede peso, del resto non gli importava.
Voleva tornare in California, riprendere il lavoro con Shan e Tomo, aveva in mente nuove canzoni ed un tour: probabilmente il lavoro lo avrebbe aiutato a gestire meglio quella testa ingarbugliata, che si ritrovava ad ogni cambio stagione.
Quella riflessione lo fece sorridere.
“Dio sei bellissimo amore …” – disse Colin, sfiorandogli gli zigomi con baci, profumati di sandalo e vaniglia.
Spense la luce, iniziando a spogliarlo, con un sottile timore.
Jared lo assecondò, annullandosi nei gesti di Colin, nei suoi ansiti, facendoli propri, come se non potesse fare altrimenti, ancora una volta.
Vassily fece strada a Jamie, in quel labirinto di corridoi, ai piani superiori della residenza di Geffen.
“Grazie per non averlo avvisato …” – disse sommesso il ballerino, sentendosi davvero minuscolo rispetto a quel colosso di muscoli.
Vassily gli fece l’occhiolino, poi ridendo aggiunse – “Nel mio paese, qualcuno una volta mi disse che esistono uomini capaci di piegare le montagne con la loro ostinazione: tu sei uno di questi, vero?”
“Marc ti ha parlato di me …?”
“I suoi occhi lo hanno fatto. Adesso vai.” – e si allontanò.
“Sì Ryan … siete stati molto disponibili, ma io riprendo a Boston, il mese prossimo, nel frattempo andrò a farmi una vacanza … Chi? La mia ex moglie? Quale delle cinque? Hellen …? No, quella è Carol … Tu non mi hai mai visto, ok?” – e rise senza convinzione, sprofondando in poltrona, davanti alla vetrata, dove solo in quell’attimo, vide riflesso Jamie.
“Devo salutarti Ryan, ci aggiorniamo domani.”
Riattaccò, rialzandosi serafico – “Qual buon vento, signor Cross?”
“Mi dai del lei?” – ribattè Jamie, con una mano in tasca e l’altra che picchiettava nevrotica sul bordo di un tavolo rotondo.
Hopper fece una smorfia di sufficienza – “In fondo mi hai trattato come un estraneo per la maggior parte del tempo, quindi meglio mantenere le distanze, se è questo che vuoi Jamie … ops …”
“Piantala di fare”-“Lo stronzo?!”
“Piantala e basta.”
Il cellulare di Marc vibrò e lui, guardando il visore, ebbe un’esitazione, che Jamie colse immediatamente.
“Scusa, devo rispondere.”
Jamie voleva andarsene, ma era curioso di capire il motivo per quella sfumatura nella voce di Marc.
“Ciao … no, sono da Glam, ma il clan è a Dublino per il rinnovo delle promesse di Jared e Colin, oltre ad un mare di casini … sai di Coleman? … Ok, non lo sapevo, quando arrivi Kurt?”
Quel nome punse lo stomaco di Jamie, che avvertì un gelo ai polpastrelli, espandersi fastidiosamente al resto di lui.
Hopper gli aveva accennato dell’uomo di Brandon Cody, del suo passato, di quanto fosse stata fugace ed inconcludente la loro relazione, del resto avevano entrambi esperienze, che Jamie pensava archiviate, ma forse non era così.
“Sì … le novità c’erano … ora non lo so esattamente. Temo di no … cinico io? Se non conosci i dettagli, non giudicarmi …” – e sorrise complice.
Il giovane prese dell’acqua dal comodino poco distante, inciampando nel tappeto ed imprecando.
“Infatti non sono solo Kurt … come mai mi hai cercato? Ok, il saluto ce lo siamo scambiati, mi ha fatto piacere sentirti … a presto, magari ceniamo, no, pranziamo insieme quando arriverete con Brandon e Martin, ciao.” – e chiuse, spegnendo quel telefono, che Jamie stava detestando.
“Adesso lo trovi il tempo per me, avvocato?” – chiese acido.
“No Jamie, fissa un incontro con la mia segretaria, il volo te lo rimborso, se l’incarico è interessante.”
“Ok … messaggio ricevuto.” – e si avviò spedito alla porta, contro alla quale Hopper lo precedette istantaneo, richiudendola con vigore.
Marc era in carenza di ossigeno, dilaniato da un senso di sconfitta e livore, per quel piccolo, dannato ragazzo, che gli aveva fatto perdere la testa ed il sonno.
Jamie era ricurvo, piegato da qualcosa, che non aveva il coraggio di dirgli.
“La … la clinica Foster mi ha telefonato … dicono … dicono che mi aspettano per una nuova terapia ed io … io non so cosa fare …” – le sue parole si mescolarono alle lacrime, che copiosamente iniziarono a precipitare, con uno stillicidio luccicante ed amaro.
“Tesoro …” - e lo strinse, ancora prima di dirlo.
Le ossa del suo bacino, sporgevano fiammeggianti, in quel contrasto di toni tra l’arancio ed il rosso, creatisi come vermigli sulla pelle di Jamie, grazie alle candele, che Marc aveva acceso, prima di strappargli i vestiti di dosso.
Sembrava assaporare il membro di quell’uomo, che lo stava impalando, solo per scoparlo, perché era questo che era necessario per loro in quel preciso frangente, senza più vittimismi o paranoie.
Jamie glielo aveva chiesto, attirandolo a sé, lasciandosi condurre in quella danza densa di erotismo e seduzione parallela, devastante quanto risolutiva, per quel male, che aveva consumato le sue certezze, almeno quanto il fuoco la cera, l’aria, il vuoto, che sembrava colmarsi, di baci, morsi, graffi, in un senso di libertà assoluta, conquistata con quei ripetuti orgasmi, che andarono a ripetersi sino all’alba.
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