martedì 29 gennaio 2013

ZEN - CAPITOLO N. 44



Capitolo n. 44  -  zen


Jude stava sorseggiando un tè alla menta, con aria fiacca.
Era un orario più consono all’aperitivo, ma le sue abitudini british erano ben radicate, come la dedizione all’alcol, di cui spesso aveva abusato negli anni d’oro della sua carriera.
“Che combini UK buddy?”
“Ehi ciao Colin … come ti gira?” – rispose biascicando la frase e guardandolo di sguincio.
“Miseria Jude …” – mormorò spiacevolmente stupito l’irlandese.
“Miseria e nobiltà!” – rise sguaiato – “La prima è qui davanti a te, mio dolce amico, mentre l’altra è nella nostra suite, a dormire … dormire, dormire, non fa altro da quando siamo arrivati” – concluse depresso – “… e temo sia un sonno artificiale, sai Colin?” – e lo fissò, più lucido, anche nella sua asserzione convinta su Downey.
“Senti andiamocene da qui, magari sali da noi”
“Per carità ahahah A fare cosa? Forse per assistere allo spettacolino della famigliola felice, allargatasi di recente?” – ed estraendo una bottiglietta dalla tasca del cardigan ampio e sgualcito, come il suo volto, Jude tracannò l’ennesimo goccetto.
“Cristo andiamocene Jude, prima che arrivi il resto della tribù!” – e prendendolo per un braccio, Colin lo trascinò verso gli ascensori, senza più badare alle sue proteste colorite.


Tom si fece una doccia rapida.
Quando tornò in cabina, Geffen era già rivestito e pronto ad andarsene.
“E’ quasi ora di cena … Scendete al nostro tavolo, insieme a Chris ed ai ragazzi di Quantico?” – chiese l’uomo sorridendo, mentre si allacciava l’orologio costoso, dono di Jared in occasione di un Natale precedente.
“Onestamente Glam, non ci tengo a mangiare accanto a Matt. Ci guarda tutti con sospetto ed astio, mi spiace dirtelo.” – rivelò, per poi ammutolirsi.
Temeva di avere urtato il suo paziente speciale, ma sbagliava.
“Tommy io … Devo come sanare un debito con Matt e mi sono cacciato in un casino … ecco” – e deglutì a vuoto.
Il terapista gli si sistemò a fianco, scrutandolo fisso.
“Sii più chiaro …”
“Non ci riesco Tom, non è nelle mie possibilità, al momento almeno.”
“Hai bisogno di aiuto?”
Geffen sorrise imbarazzato – “Sono maggiorenne e vaccinato, non esageriamo” – e si alzò brusco.
“Dove vai?” – chiese smarrito il giovane.
“Da qualche parte … là fuori.”



Spencer morse il cuscino, ripetutamente.
Derek stava spingendo forte, il suo sesso andava ingrossandosi ad ogni gemito di quel ragazzino saccente e sensuale.
L’agente di colore manteneva ormai da un’ora quell’incessante ritmo.
Dapprima aprendogli le gambe, dopo averlo baciato e morso, tra la bocca, il mento, il collo, poi di nuovo la bocca e la lingua, la lingua succosa di Spencer, poi girandolo di forza, per ridurlo a carponi, dominando ogni sua fibra, ogni cellula glabra e ricettiva, che faceva letteralmente impazzire Morgan.
Arpionò le spalle di Reid, con i propri artigli voraci, come i suoi denti, piantati tra le scapole, pronti a retrocedere, lasciando il posto ad un’umida scia, come quella che stava colando tra le cosce bianche ed esili di uno Spencer in totale estasi.
Quando gli crollò addosso, gli addominali di Derek aderirono così saldamente al dorso di Spencer, da fargli credere che non si sarebbero separati mai più.
Gli venne dentro per la terza volta, forse la quarta, Reid aveva perso il conto, la ragione, l’anima.
Se solo gli fosse importato qualcosa di quell’annullarsi: non voleva nient’altro dalla vita.
Lo aveva deciso: definitivamente.


La scusa di salutarlo era plausibile.
Lasciare che gli mostrasse le proprie cicatrici, quasi un’urgenza, per il senso di colpa, che Geffen sentiva salirgli dallo stomaco.
Denny era bellissimo ed indifeso, nella penombra della sua stanza, adagiato sul letto, con al fianco Glam, che lentamente finiva di spogliarlo, dopo avere seguito con una carezza lieve, l’arabesco sgraziato ed irregolare, segno doloroso di quell’attentato sanguinario a Port au Prince, rimasto nelle sue carni e sulla sua pelle.

Geffen si insinuò lentamente, scendendo in lui come un fiume caldo e rigoglioso, anche per come lo baciava, per la gioia che Denny avvertiva pervaderlo.
Si sentiva desiderato, quasi … amato.

Fuori nevicava.


“Bevine ancora Jude”
Farrell gli spinse la tazza di caffè sotto il naso, provocando nell’amico un conato di vomito.
“Devo … devo andare in bagno … cazzo!” – e vi si precipitò, lasciando Colin e Jared attoniti e delusi per quella sorta di tunnel, all’interno del quale, Jude e Robert non riuscivano ancora a vedere la luce.

“Io comprendo che lo stiano facendo per Camilla …” – disse flebile Jared, appoggiandosi alla spalla di Colin, piegato sopra il divano, dov’era seduto con il marito.
“E’ assai più complicato Jay …”
“Sì, Cole, certo …”
“Solo che si sta trasformando in un’agonia, capisci?” – e lo guardò, sconvolto.

Bussarono.
Era Robert.
“Jude è qui?” – fu la prima cosa che disse, senza neppure salutare Jared, affrettatosi ad aprirgli. 
“Ciò che ne resta …” – replicò il cantante, facendosi da parte.






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