Capitolo n. 115 - sunrise
Le parole di Jared non lasciavano spazio all’immaginazione.
Glam scosse la testa, avvolgendolo un istante dopo, con le sue ali robuste.
“Da quando ti amo, Jay, ho imparato a convivere con i rimpianti” – disse piano, per poi dargli un bacio profondo ed andarsene, senza lasciargli possibilità di replica alla sua scelta.
Colin cercò Jude, con la voce di chi voleva porre fine al proprio sconforto.
Law, senza Camilla e Robert per casa, la prima da Pamela ed il secondo dalla piccola Lillybeth a Malibu, corse dall’amico, consapevole che l’avrebbe trovato in uno stato pietoso.
Farrell aveva non solo bevuto, ma anche ingerito un farmaco, prescrittogli da Scott, per la terapia di mantenimento post ictus.
Era l’unica pastiglia, che l’attore proseguiva ad assumere, senza particolari effetti collaterali, essendo ormai sobrio da anni.
Il fatto di essere un ex alcolizzato, purtroppo, lo esponeva al rischio di gravi conseguenze: un’overdose capace di fargli perdere la cognizione di sé stesso e di ciò che lo circondava.
Jude provò a farlo ragionare, davanti alle sue invettive, atte a respingerlo, come se fosse un demone, sbucato da un inferno, che soltanto Colin vedeva incendiarsi all’ultimo piano della End House, disabitato e senza arredi, dove aveva trovato rifugio, per ubriacarsi senza essere disturbato.
I Wong, con i body guard ed i bimbi non potevano sentirlo assolutamente, così come non sarebbe accaduto con le grida di Jude.
Inaspettatamente Colin gli sferrò un colpo in pieno viso, facendolo crollare inerme sul parquet, dove la nuca dell’inglese emise un tonfo sordo, attutito da un provvidenziale tappeto.
Le mani di Farrell lo afferrarono per il collo, ma Jude non riusciva né a reagire né tanto meno a difendersi.
“Cole … Cole ti prego fermati …”
Altri schiaffi e gli abiti di Jude che andavano a brandelli.
L’odore nauseante di sudore acido, questa era l’ultima cosa che Jude riuscì a ricordare, prima di svenire, per un tempo indefinito.
Quello che accadde, nella stanza semibuia, Jude lo dedusse quando riprese i sensi.
La schiena era flagellata da fitte, come l’ambiente dal lampeggiare esterno, in una tempesta di vento e pioggia assordanti.
Le sue gambe erano umide, i jeans calati e sfilati solo dal piede sinistro, mentre alla caviglia destra erano rimasti intrappolati, come i boxer; la camicia strappata, così il pullover.
I dorsi delle mani graffiati, gli zigomi ammaccati, le tempie pulsanti, come la pelle dell’inguine.
Tremando, si toccò tra le gambe, sussultando nel capacitarsi che era stato aggredito da Colin.
Gli venne da vomitare e lo fece: non c’era nessuno, soprattutto, non c’era Colin.
Jude non poteva saperlo, ma Farrell era tornato come un automa sino al proprio letto, in una trance surreale, facendosi persino una doccia, prima di infilarsi tra le lenzuola candide.
Il terminal era semideserto.
Parecchi voli erano stati cancellati, ma non quello di Ivo.
Lui e Tim avevano litigato pesantemente ed al sopraggiungere di Kevin, la situazione sembrò peggiorare.
“Questa è l’ultima volta che ti chiedo di seguirmi Tim!!”
“Vai al diavolo, io non voglio crepare su quella scatola di sardine, per poi ridurmi a rimanere chiuso in camera ad aspettare i tuoi porci comodi, stronzo!”
Ivo gli mollò un ceffone, almeno l’intenzione era quella, ma Kevin, provvidenziale, lo bloccò per un polso, per poi buttarlo a terra, con uno spintone vigoroso.
“E tu che cazzo vuoi!!?”
Nelle sue iridi, Kevin riconobbe la furia delle persone egoiste e sadiche, alle quali non ci si poteva sottrarre, forse sedotti dal fascino del male, che Ivo trasmetteva nitido ed inquietante ai due giovani.
Il bassista non si arrese, reagendo con determinazione.
“Voglio portarmi via Tim e lo farò, stanne certo!”
La strada era buia, tutto lo era, dentro Jude.
Con uno sforzo, che gli apparve sovraumano, riuscì a rivestirsi e guadagnare l’uscita, coprendosi anche con un trench, dimenticato appesa ad un attaccapanni nei pressi di un’uscita secondaria della residenza di Colin.
Jude si alzò il cappuccio, nascondendo il viso tumefatto e le lacrime, che ben presto andarono a mescolarsi con la pioggia battente.
Mentalmente ringraziò il destino per essere solo al proprio rientro.
Si spogliò affannosamente, decidendo di lavare tutto e poi buttarlo, se necessario.
Era nel bagno di servizio, in preda al panico, quindi cercò del cognac e ne bevve un bicchiere quasi colmo.
Reggeva bene l’alcol, ma la paura gli attanagliava lo stomaco, rivoltato dai conati di poco prima.
Riempì la vasca e vi si immerse, tremando.
L’acqua ed i vapori lo rasserenarono, forse anche l’Armagnac aveva qualche merito: avrebbe voluto urlare, ma preferì quasi annegare, per poi risalire ansante e ripulito, dai segni invisibili lasciati da Colin, una delle persone alle quali era più legato.
Si impose una logica assurda, appena riuscì a rannicchiarsi sotto al piumone, profumato di Robert.
Se Farrell non l’avesse scagliato sul pavimento, se fosse stato cosciente insomma, non sarebbe accaduto nulla.
Avrebbe respinto la violenza di Colin e …
Ebbe come un black out: quei sensi di colpa erano quanto meno assurdi, quanto allucinanti.
Le lacrime si riappropriarono delle sue iridi alienate, così come Colin aveva fatto con la sua dignità e la sua gioia di vivere.
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