Capitolo n. 238 – zen
Shannon sgattaiolò
dal retro della End House, come un ladro.
La similitudine gli
calzava perfetta, anzi, gli martellava in testa, tanto da nausearlo.
Accostò di botto,
rischiando un tamponamento, per dare di stomaco.
Precipitatosi fuori
dalla vettura, fece appena in tempo a sentire il suono del cellulare,
dimenticato sul sedile.
Era Jared.
“Sì?” – rispose
concitato.
“Shan …? Ehi, sono
io, tutto bene?”
“Sì … cioè no, devo
avere mangiato qualcosa di guasto alla festa di Rice”
“Ci sei andato?” –
Jared rise – “Strano, pensavo chiudessi Tomo nello sgabuzzino e rigassi l’auto
ad Owen” – scherzò sereno.
“No figurati … Sono
orgoglioso del suo talento … Non lo merito” – mormorò amaro.
“Che diavolo blateri?
L’indigestione ti ha fuso il cervello fratellone? Sabato sono da te, voglio
raccontarti di questo viaggio e coccolarti: ti ho trascurato troppo” – affermò
con tenerezza.
“Mio Dio …” –
singhiozzò il batterista, soffocato dall’ennesimo conato.
“Shan ma cosa ti prende?!”
“Sto da cani … scusa,
ma devo chiudere, torno a casa”
“Ti mando qualcuno?”
– bissò allarmato.
“No, ce la faccio e
poi sono solo due isolati … Non preoccuparti, ok? Ti voglio bene Jared”
“Anch’io Shan …
Chiamami subito appena arrivi, ok? Prometti!”
“Te lo prometto …
ciao tesoro” – e riattaccò, in lacrime.
L’odore del sesso e
di Shannon gli stava intossicando le narici.
Farrell tossì,
lasciando scivolare sul parquet il plaid, con il quale il cognato lo aveva
coperto in fretta, prima di andarsene.
“Cazzo …” – sussurrò
l’irlandese, mettendosi seduto.
Era nudo come un
verme.
Si sentiva un verme,
in effetti.
Senza “se” e senza
“ma”.
Certo poteva ben
immaginare cosa stessero combinando Jared e Glam ad Haiti: seppure debole e
malconcio, Geffen era pieno di risorse quando si trattava del leader dei Mars,
per cui avrebbe approfittato di ogni singolo istante insieme a lui, di ogni
briciolo di energia rimastagli.
Quella bilancia
iniziava a scricchiolare pericolosamente: tutti avevano ragione, chi prima, chi
dopo, ma nessuno ne sarebbe uscito indenne.
Downey si provò
l’abito per il matrimonio.
Aveva fatto shopping
con Jude, ritrovando un minimo di allegria e complicità.
“Ti sta una favola
Robert … Cavoli, sei uno schianto”
“Nonostante la mia veneranda
età?” – sorrise.
“I tuoi anni sono
stupendi Rob … e spero tu li voglia condividere ancora con me” – e lo cinse da
dietro, allacciandogli al polso sinistro un bracciale d’oro bianco, con una
piastrina di brillanti.
Un gioiello
raffinato, come l’americano, del resto.
“Miseria Jude, ma
cosa …?” – e si girò, con stupore e gioia.
Si baciarono intensi.
Law appoggiò poi la
fronte a quella del consorte, commuovendosi.
“Ti ricoprirei di
doni se solo potessi … potessi riavere la tua fiducia … il tuo conforto Robert”
– e lo strinse forte.
“Io sono qui … e
voglio restarci Jude” – gli disse convinto, tornando a fissarlo, innamorato.
C’era pace e
silenzio, intorno, un buon profumo, la luce del tramonto: forse si poteva
ricominciare, senza più fingere, senza più arrancare.
Sarebbe stato così
bello.
Lo pensarono
entrambi, senza dirselo.
Geffen riconobbe la
sagoma, oltre il vetri dell’accettazione, deserta a quell’ora del mattino.
“Kevin …?!”
“Daddy!”
Il bassista gli corse
incontro, abbracciandolo con entusiasmo.
“Glam io non
resistevo più a Los Angeles senza avere notizie certe, figurati Lula … ed anche
Tim, ovvio” – e sorrise pulito, guardandolo.
“Avete portato qui
soldino?” – domandò frastornato da quell’improvvisata.
“Certo, non avremmo
potuto fare altrimenti …” – replicò perplesso davanti alla sua reazione.
“Dov’è ora?”
“Vieni daddy” – e lo
prese per mano, conducendolo ad una finestra, che dava sul cortile della
fondazione – “Eccolo, con gli altri bimbi, giocano con i palloncini …”
In effetti Lula e Tim
li stavano gonfiando, aiutati da Sebastian.
“Sì … lo vedo …”
“Pensavo di renderti
felice portandoti nostro figlio …”
“No, è che io … ecco
sarei tornato domani Kevin, credevo di avertelo detto … Non fraintendermi, sono
… sono contento che voi siate qui” – e lo avvolse amorevole.
“Meno male, avevo
creduto il contrario …” – abbozzò scherzoso, anche se con un nodo alla gola,
appena si rese conto di quanto l’ex fosse provato ed instabile sulle gambe, senza
il bastone dimenticato accanto al davanzale.
“Aspetta daddy, ora
ti aiuto, meglio sedersi, che ne pensi?” – propose gentile.
“Sì, dovrei prendere
anche delle pastiglie … Sai, ho avuto dei problemi gastro intestinali non da
poco … Mi sono sentito uno schifo …”
Kevin sorrise timido –
“Per fortuna che Jared ti ha seguito … Sono certo che non ti lascia solo un
attimo …” – disse incerto.
“Infatti è … è
straordinario, si sacrifica, come hai sempre fatto tu con questo coglione …” –
e gli diede un bacio sulla guancia destra, facendolo avvampare.
Geffen era emozionato
ed affettuoso, in quel modo che faceva sentire Kevin così speciale, come al
centro del mondo.
Eppure quel mondo, dove
ora Glam stava camminando, era una continua insidia, un perenne cadere, per l’uomo
che aveva tenuto in pugno la propria esistenza, come nessuno.
“Oh eccolo … arriva
Jay” – sussurrò l’avvocato, indicando il corridoio.
Kevin gli si avvicinò
veloce, gli occhi lucidi.
“Cavoli, ma sei tu!” –
Leto lo strinse solare e come sollevato dalla sua presenza.
“Ciao Jared … siamo
venuti a recuperarvi … Ecco …”
“Fantastico … Siete?
Ci sono Tim e Lula?”
Kevin annuì, tornando
poi, senza scollarsi da Jared, da Geffen, che li accolse a sé, restando nel
mezzo, sopra a quel divanetto spazioso.
“Tra poche ore
decolleremo, ho quasi sbrigato tutto … Vorrei solo andare al cimitero, a
salutare Syria, se non vi spiace ragazzi …”
“No, anzi, le ho
preso dei fiori” – intervenne Jared.
“Per me nessun
problema, lo dico a Tim … Magari Lula lo lasciamo qui …”
“Assolutamente sì” –
disse di un fiato Geffen, alzandosi poi, piuttosto rinfrancato da quella pausa.
Tomo lo ritrovò
rannicchiato sotto ad un piumone, con la bottiglia di whisky, mezza vuota,
sopra al comodino.
“Cazzo Shan …”
“Ehi … Ti va un
goccio?”
“Perché sei così
stronzo?? Solo per la mostra, per Rice?? Oh accidenti Shannon!”
“Non fare tutto
questo casino … ho un’emicrania spaventosa …” – si lamentò, biascicando la
frase e nascondendosi sotto le coltri.
“Faccio una doccia e
ti raggiungo … idiota”
Il croato si
allontanò, imprecando qualcosa nella sua lingua, ma Shan ormai aveva perso i
sensi.
Avrebbe voluto
sparire, ben consapevole che nessuno gli avrebbe impedito prima di farlo, di
dire la verità a Jared: era un peso insopportabile da metabolizzare o
dimenticare.
Se ne sarebbe
liberato al più presto.
Geffen si fermò per
qualche minuto a parlottare con un omino, piuttosto elegante, lasciando andare
avanti Jared, Kevin e Tim, senza spiegare loro chi fosse.
Quando furono tutti
davanti alla lapide di Syria, Leto gli chiese spiegazioni, ma Glam rimase sul
vago.
Kevin non diede peso
alla cosa, allo stesso modo Tim, molto premuroso a mettere in ordine i fiori e
spolverare delle lanterne, che Jared riaccese senza più aggiungere una sola
parola.
Era concentrato nel
ricordo della ragazza, che gli aveva donato Isotta.
Dissero alcune
preghiere, poi si congedarono da quel luogo così particolare.
“Comunque era delle
pompe funebri”
Geffen ruppe il suo
mutismo, appena risaliti sull’hummer, alla cui guida si mise Kevin.
“Chi, il tale con cui
discutevi?”
“Sì Jared e poi non
stavano mica discutendo … Mi stava facendo incazzare per alcuni passaggi
burocratici, di certo risolvibili con un po’ di dollari …”
“Di cosa parli daddy?”
“Della mia … sì,
insomma, della mia sepoltura … Ho scelto Port au Prince per svariate ragioni …”
– rivelò assorto.
Tutti e tre lo
puntarono, sbigottiti.
Leto sentì un brivido
tra le scapole; inforcò i Ray-Ban e si ammutolì.
Tim diede una carezza
alla gamba di Kevin, invitandolo con un’occhiata a proseguire, senza porre
ulteriori quesiti.
Lula li stava
aspettando.
Appena Geffen lo
scorse, seduto su di una panchina, nei giardini del centro, scoppiò a piangere.
Senza freni.
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