mercoledì 28 gennaio 2015

LIFE - CAPITOLO N. 86

Capitolo n. 86 – life



Le spalle larghe di Geffen, in quell’attimo apparvero un po’ ricurve, come se oppresse, da un qualcosa di invisibile, alla vista di Downey, che gli andò vicino, mentre l’altro se ne stava in piedi, appoggiato ad una penisola, in una sorta di angolo bar del jet.

Glam stava bevendo una tonica, divorato da un’arsura inconsueta.
Per la tensione, per l’amarezza.

Robert appoggiò i palmi gelidi, tra le scapole del suo ormai ex.

Geffen inspirò a fondo.

“Ora è … E’ troppo presto, per parlarne, scusami tesoro”

Continuava a chiamarlo in quel modo, come se si ostinasse a tenerlo un po’ di più, nella propria vita disordinata e burrascosa.

“No, scusami tu Glam, però io ne ho bisogno, di guardarti negli occhi e”

Geffen si voltò di netto, con impeto tipico della sua indole caparbia ed un po’ spavalda.

“Non è necessario Robert, perché io sapevo che un giorno, le nostre reciproche debolezze ci avrebbero diviso, anche se non volevo crederci, sai?” – e gli raccolse il viso arrossato, tra le dita tiepide.

“Io, in compenso, non ho creduto abbastanza a te … Ed è solo stato questo il mio, il nostro problema, perché ti amo così tanto Glam” – ed iniziò a piangere, con dignità.

Quella che Geffen adorava, in lui.

Lo abbracciò, facendolo sentire unico al mondo.
Ancora una volta.

“Se ti ho lasciato un dubbio, su Jared, posso dirti che ti sbagli, anche se lui, per me, è ancora importante … Jude, però, è la tua vita” – e lo fissò, incastrando poi i rispettivi profili, un altro gesto che gli sarebbe mancato da morire – “… Volevo invecchiare insieme a te, Robert, semplicemente questo”

Le lacrime di Downey divennero cocenti.
Gli mancò l’aria, così la terra sotto ai piedi ed era buffo, lì, a chilometri sopra l’oceano, avvertire quella sensazione di vuoto incolmabile.

Doveva decidere se riempirlo o meno, il proprio vuoto esistenziale, con i sentimenti, che mai aveva smesso di provare per Law: questo il passo successivo, a quegli istanti così terribili, a quella fine, di un legame, dove aveva conosciuto rispetto e considerazione, da parte di un uomo difficile da domare e comprendere, quale era Glam Geffen.

Senza più rimpianti.
Senza più rimorsi.




Rossi siglò l’ennesimo modulo, dopo avere consegnato la provetta, custodita in una scatoletta viola.

Kurt era già al telefono con la madre surrogato, quasi un’amica per lui, anche se la donna mai aveva voluto incontrare Martin, a parte la richiesta di una foto, l’anno precedente.

David scrutava il consorte, la sua gioia nel prendere quegli accordi definitivi e proporre, come da contratto, una vacanza nei mari del sud oppure in Scandinavia.

Una di quelle crociere, tra i fiordi, che l’agente avrebbe voluto fare insieme alla sua famiglia, prima o poi.

Il tempo sembrava dilatare i contorni di quei sogni, come a renderli più deboli, nella mente di Rossi, piuttosto che in quella di Kurt, ancora vivido nelle proprie aspettative.

Dave, per la prima volta, si sentì smarrito: forse non avrebbe mai visto abbastanza di quel figlio, non come avrebbe voluto almeno.
I calcoli mentali, sulla sua età, erano incontrovertibili.

Certo era in salute e faceva il possibile per essere piacente ed attivo, però …
Quanti  però, agitavano ora il suo cuore, generoso e partecipe.




Law prese un lungo respiro.

La domanda di Kitsch era stata chiara e diretta.

“E’ finita, vero Jude?”

Il giovane lo stava fissando da almeno tre, pesantissimi, minuti.

Seduti ad un caffè del centro, un bistrot francese, appena aperto tra i locali ed i negozi più chic di Londra, i due stavano attirando l’attenzione, anche se i rispettivi toni erano pacati, ma i loro volti raccontavano un’altra storia.

“Taylor vorrei andarmene da qui, poi parleremo con calma” – propose l’inglese, ma inutilmente.

“Parlare con calma?! Di cosa, di come me la state facendo alle spalle, tu e Robert?!” – ruggì a mezza voce, le iridi lucide.

“Noi non abbiamo fatto nulla”

“Non ancora, cazzo!!” – e si alzò, dando uno strattone al tavolino, tanto da fare cadere bicchieri ed un vassoio di tramezzini.

L’idea era quella di prendere un aperitivo, prima di incontrarsi con Jared e Colin per la cena, senza sapere a che ora Glam e Downey sarebbero atterrati.

“Taylor, mio Dio smettila!” – quasi lo implorò, afferrandogli un polso, ormai faccia a faccia con lui.

I camerieri stavano sistemando quel casino ed alcuni degli avventori non esitarono a documentare ogni dettaglio di quella scenata in piena regola.

“Andiamocene, maledizione!” – imprecò Law, trascinando via il compagno o ciò che ne rimaneva.

Appena fuori, gli sbuffi di neve ed il gelo, li investirono impietosi, come quella situazione imbarazzante.

Il pianto di Kitsch, si cristallizzò sui suoi zigomi, frementi di rabbia e delusione.

“Mi hai usato, nell’attesa di lui, almeno ammettilo, bastardo!!”

Altri flash e per poco Law non sferrò un pugno ad un tizio, che si era fermato sugli scalini di un pub adiacente, per immortalare la loro lite, ormai ingestibile.

Farrell stava sopraggiungendo in lontananza.
Era da solo.

Riuscì a malapena ad intravedere Taylor salire su di un taxi ed allontanarsi, mentre Jude inveiva contro quegli sciacalli, trattenuto da un buttafuori.

Colin gli chiese di lasciarlo andare e l’energumeno gli diede retta.

“Ma che diavolo stai facendo Jude??!”

“Hai l’auto?”

“Sì, dietro l’angolo, su vieni, andiamocene!”


https://www.youtube.com/watch?v=z1rYmzQ8C9Q



Le coordinate erano esatte: Geffen le ricontrollò un paio di volte, guardandosi intorno.

L’indirizzo era quello di una scuola, un istituto elementare, con annesso asilo e nido per l’infanzia: l’avvocato lesse la targa, affissa ad una delle due colonne in mattoni, ai lati del cancello in ferro battuto nero, oltre il quale c’era un bel giardino imbiancato, dove un abete secolare era stato decorato da una miriade di luci e fiocchi argentati, domandandosi come mai Jared lo avesse voluto incontrare lì.

Si alzò meglio il bavero del giaccone, provando un brivido lungo la spina dorsale, poi il suono di una campanella lo fece sobbalzare.

Era l’ultimo giorno di lezione.
Geffen se ne rese conto osservando l’entusiasmo degli scolari, che si precipitarono all’aperto, correndo in parte verso i genitori, appena scesi dalle macchine ed in parte verso quel candore, per giocare ed imbastire pupazzi, tra risa, voci e schiamazzi divertenti.

L’uomo sorrise, pensando che a Los Angeles, nessuno avrebbe mai assistito ad uno spettacolo del genere.
Solo pioggia, temporali violenti, praticamente tempeste.

E lui era abituato ad attraversarle, anche se stava diventando sempre più faticoso farlo.


“Glam …”

La voce di Leto lo riportò alla realtà, a quell’atmosfera natalizia ed ad un contesto, così caro ad entrambi.

Una scena, che sembrò ripetersi, come per incanto.
O per semplice volere del cantante.

I piccoli divennero un fiume, i cui rivoli passarono loro in mezzo, ai lati, sino alle rispettive destinazioni.

“Ciao Jay …”

Geffen aveva capito.

“E’ da molto che sei qui?” – domandò emozionato ed incurante di quanto li circondasse ormai.

“Ci sono sempre stato …”

Leto deglutì a vuoto.
Era bellissimo.

“Sì, lo so Glam …”

Quel nome, i suoi turchesi, il respiro di Geffen erano come un mantra, uno spicchio di sole il suo sorriso, anche se ora sembrava così triste, anche se glielo stava regalando ugualmente, così la sua espressione innamorata.

La sua mano sinistra uscì dalla tasca, sino alle gote del leader dei Mars.

“Sai tutto di me, di noi … Anche che abbiamo messo troppe cose, troppe persone, in mezzo a noi Jay, vero?”

“Glam io …”


“Jared!”

Leto si girò di colpo, accorgendosi di Colin, poco distante, che stava tenendo una bimba in braccio, per pochi secondi, dopo di che l’irlandese la passò alla madre, che lo aveva riconosciuto e lo stava ringraziando per avere sollevato la figlia, appena caduta sul marciapiede, per il sottile strato di ghiaccio.

Gli zaffiri di Jared tornarono nella direzione di Geffen, ma lui non c’era più.

“Jay, ti stavo cercando … Dai vieni, ti porto in un posto, siamo in ritardo” – e lo baciò, quasi percependo le sue pulsazioni a fior di labbra.

“Cole, ma come …?” – mormorò sbigottito.

La neve aumentò ed i loro passi divennero una corsa, verso una chiesetta.

Oltre il portone intarsiato, c’era una minuscola navata, decorata da decine di corbeille di rose bianche e centinaia di candele accese un po’ ovunque.

“Solo tu ed io, Jay … Ed il pastore, ovviamente” – Farrell rise composto – “… Te lo avevo promesso”

Leto annuì, confuso, seguendolo verso l’altare.

Colin indicò le fedi, appoggiate sopra un cuscino in raso avorio.

Padre Connor li accolse gentile, spiegando la breve procedura, per il rinnovo dei voti nuziali.

“Capito tutto Jay?” – scherzò il moro, tenendolo stretto a sé.

“Sì …” – e si guardò ancora una volta indietro, ma c’erano unicamente loro.

Loro e nessun altro.




Miss. Halley aveva un negozietto di pasticceria, così antico e minuscolo, da sembrare la casa delle bambole di Camilla.

Law glielo diceva sempre ed ogni anno passava a trovarla, raccontandole un po’ di quel mondo là fuori, che l’anziana signora non seguiva neppure alla tv, rifiutandosi di comprarla, ma leggendo testi di ogni genere, perché la cultura era cibo per la mente, appetitoso almeno quanto le sue delizie candite.

Lei sapeva di Jude e Robert, li aveva sempre sostenuti, dimostrando una mente aperta e vivace, nonché un garbo di rara eleganza e sobrietà.

Ad ogni ricorrenza, Law andava da lei a fare scorta di dolciumi e torte, spesso con il consorte.

“Prova questi bon bon al cioccolato belga, Jude …”

“Sì, buoni … Squisiti, piacerebbero anche a” – e si interruppe, un groppo alla gola.

“Ma Robert, quando arriva, scusa?” – domandò perplessa.

“Sono qui Alice, stavo ammirando la tua vetrina”

Law si sentì scoppiare il cuore.

“Amore …”

“Ciao Jude, scusa il ritardo, ma quelle giostre a carillon, mi hanno ipnotizzato” – e gli sorrise, accarezzandogli la schiena.

“Bene, ora che siete arrivati, prendo lo cherry e ci scambiamo gli auguri, miei adorati ospiti!” – sentenziò Miss. Halley, aprendo le ante di un mobile dell’ottocento.

Jude e Robert si guardarono, avvolgendosi reciprocamente in un abbraccio, che valeva più di mille parole.

Di mille perdoni.












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