Capitolo n. 86 – life
Le spalle larghe di
Geffen, in quell’attimo apparvero un po’ ricurve, come se oppresse, da un
qualcosa di invisibile, alla vista di Downey, che gli andò vicino, mentre
l’altro se ne stava in piedi, appoggiato ad una penisola, in una sorta di
angolo bar del jet.
Glam stava bevendo una
tonica, divorato da un’arsura inconsueta.
Per la tensione, per
l’amarezza.
Robert appoggiò i palmi
gelidi, tra le scapole del suo ormai ex.
Geffen inspirò a fondo.
“Ora è … E’ troppo
presto, per parlarne, scusami tesoro”
Continuava a chiamarlo
in quel modo, come se si ostinasse a tenerlo un po’ di più, nella propria vita
disordinata e burrascosa.
“No, scusami tu Glam,
però io ne ho bisogno, di guardarti negli occhi e”
Geffen si voltò di
netto, con impeto tipico della sua indole caparbia ed un po’ spavalda.
“Non è necessario
Robert, perché io sapevo che un giorno, le nostre reciproche debolezze ci
avrebbero diviso, anche se non volevo crederci, sai?” – e gli raccolse il viso
arrossato, tra le dita tiepide.
“Io, in compenso, non
ho creduto abbastanza a te … Ed è solo stato questo il mio, il nostro problema,
perché ti amo così tanto Glam” – ed iniziò a piangere, con dignità.
Quella che Geffen
adorava, in lui.
Lo abbracciò, facendolo
sentire unico al mondo.
Ancora una volta.
“Se ti ho lasciato un
dubbio, su Jared, posso dirti che ti sbagli, anche se lui, per me, è ancora
importante … Jude, però, è la tua vita” – e lo fissò, incastrando poi i
rispettivi profili, un altro gesto che gli sarebbe mancato da morire – “…
Volevo invecchiare insieme a te, Robert, semplicemente questo”
Le lacrime di Downey
divennero cocenti.
Gli mancò l’aria, così
la terra sotto ai piedi ed era buffo, lì, a chilometri sopra l’oceano,
avvertire quella sensazione di vuoto incolmabile.
Doveva decidere se
riempirlo o meno, il proprio vuoto
esistenziale, con i sentimenti, che mai aveva smesso di provare per Law:
questo il passo successivo, a quegli istanti così terribili, a quella fine, di
un legame, dove aveva conosciuto rispetto e considerazione, da parte di un uomo
difficile da domare e comprendere, quale era Glam Geffen.
Senza più rimpianti.
Senza più rimorsi.
Rossi siglò l’ennesimo
modulo, dopo avere consegnato la provetta, custodita in una scatoletta viola.
Kurt era già al
telefono con la madre surrogato, quasi un’amica per lui, anche se la donna mai
aveva voluto incontrare Martin, a parte la richiesta di una foto, l’anno
precedente.
David scrutava il
consorte, la sua gioia nel prendere quegli accordi definitivi e proporre, come
da contratto, una vacanza nei mari del sud oppure in Scandinavia.
Una di quelle crociere,
tra i fiordi, che l’agente avrebbe voluto fare insieme alla sua famiglia, prima
o poi.
Il tempo sembrava
dilatare i contorni di quei sogni, come a renderli più deboli, nella mente di
Rossi, piuttosto che in quella di Kurt, ancora vivido nelle proprie
aspettative.
Dave, per la prima volta,
si sentì smarrito: forse non avrebbe mai visto abbastanza di quel figlio, non
come avrebbe voluto almeno.
I calcoli mentali,
sulla sua età, erano incontrovertibili.
Certo era in salute e
faceva il possibile per essere piacente ed attivo, però …
Quanti però, agitavano
ora il suo cuore, generoso e partecipe.
Law prese un lungo
respiro.
La domanda di Kitsch era stata chiara e diretta.
“E’ finita, vero Jude?”
Il giovane lo stava
fissando da almeno tre, pesantissimi, minuti.
Seduti ad un caffè del
centro, un bistrot francese, appena aperto tra i locali ed i negozi più chic di
Londra, i due stavano attirando l’attenzione, anche se i rispettivi toni erano
pacati, ma i loro volti raccontavano un’altra storia.
“Taylor vorrei
andarmene da qui, poi parleremo con calma” – propose l’inglese, ma inutilmente.
“Parlare con calma?! Di
cosa, di come me la state facendo alle spalle, tu e Robert?!” – ruggì a mezza
voce, le iridi lucide.
“Noi non abbiamo fatto
nulla”
“Non ancora, cazzo!!” –
e si alzò, dando uno strattone al tavolino, tanto da fare cadere bicchieri ed
un vassoio di tramezzini.
L’idea era quella di
prendere un aperitivo, prima di incontrarsi con Jared e Colin per la cena,
senza sapere a che ora Glam e Downey sarebbero atterrati.
“Taylor, mio Dio
smettila!” – quasi lo implorò, afferrandogli un polso, ormai faccia a faccia
con lui.
I camerieri stavano
sistemando quel casino ed alcuni degli avventori non esitarono a documentare
ogni dettaglio di quella scenata in piena regola.
“Andiamocene,
maledizione!” – imprecò Law, trascinando via il compagno o ciò che ne rimaneva.
Appena fuori, gli
sbuffi di neve ed il gelo, li investirono impietosi, come quella situazione
imbarazzante.
Il pianto di Kitsch, si
cristallizzò sui suoi zigomi, frementi di rabbia e delusione.
“Mi hai usato, nell’attesa
di lui, almeno ammettilo, bastardo!!”
Altri flash e per poco
Law non sferrò un pugno ad un tizio, che si era fermato sugli scalini di un pub
adiacente, per immortalare la loro lite, ormai ingestibile.
Farrell stava
sopraggiungendo in lontananza.
Era da solo.
Riuscì a malapena ad
intravedere Taylor salire su di un taxi ed allontanarsi, mentre Jude inveiva
contro quegli sciacalli, trattenuto da un buttafuori.
Colin gli chiese di
lasciarlo andare e l’energumeno gli diede retta.
“Ma che diavolo stai
facendo Jude??!”
“Hai l’auto?”
“Sì, dietro l’angolo,
su vieni, andiamocene!”
https://www.youtube.com/watch?v=z1rYmzQ8C9Q
Le coordinate erano
esatte: Geffen le ricontrollò un paio di volte, guardandosi intorno.
L’indirizzo era quello
di una scuola, un istituto elementare, con annesso asilo e nido per l’infanzia:
l’avvocato lesse la targa, affissa ad una delle due colonne in mattoni, ai lati
del cancello in ferro battuto nero, oltre il quale c’era un bel giardino
imbiancato, dove un abete secolare era stato decorato da una miriade di luci e
fiocchi argentati, domandandosi come mai Jared lo avesse voluto incontrare lì.
Si alzò meglio il
bavero del giaccone, provando un brivido lungo la spina dorsale, poi il suono
di una campanella lo fece sobbalzare.
Era l’ultimo giorno di
lezione.
Geffen se ne rese conto
osservando l’entusiasmo degli scolari, che si precipitarono all’aperto,
correndo in parte verso i genitori, appena scesi dalle macchine ed in parte verso
quel candore, per giocare ed imbastire pupazzi, tra risa, voci e schiamazzi
divertenti.
L’uomo sorrise,
pensando che a Los Angeles, nessuno avrebbe mai assistito ad uno spettacolo del
genere.
Solo pioggia, temporali
violenti, praticamente tempeste.
E lui era abituato ad
attraversarle, anche se stava diventando sempre più faticoso farlo.
“Glam …”
La voce di Leto lo
riportò alla realtà, a quell’atmosfera natalizia ed ad un contesto, così caro
ad entrambi.
Una scena, che sembrò
ripetersi, come per incanto.
O per semplice volere
del cantante.
I piccoli divennero un
fiume, i cui rivoli passarono loro in mezzo, ai lati, sino alle rispettive
destinazioni.
“Ciao Jay …”
Geffen aveva capito.
“E’ da molto che sei
qui?” – domandò emozionato ed incurante di quanto li circondasse ormai.
“Ci sono sempre stato …”
Leto deglutì a vuoto.
Era bellissimo.
“Sì, lo so Glam …”
Quel nome, i suoi
turchesi, il respiro di Geffen erano come un mantra, uno spicchio di sole il
suo sorriso, anche se ora sembrava così triste, anche se glielo stava regalando
ugualmente, così la sua espressione innamorata.
La sua mano sinistra
uscì dalla tasca, sino alle gote del leader dei Mars.
“Sai tutto di me, di
noi … Anche che abbiamo messo troppe cose, troppe persone, in mezzo a noi Jay,
vero?”
“Glam io …”
“Jared!”
Leto si girò di colpo,
accorgendosi di Colin, poco distante, che stava tenendo una bimba in braccio,
per pochi secondi, dopo di che l’irlandese la passò alla madre, che lo aveva
riconosciuto e lo stava ringraziando per avere sollevato la figlia, appena
caduta sul marciapiede, per il sottile strato di ghiaccio.
Gli zaffiri di Jared
tornarono nella direzione di Geffen, ma lui non c’era più.
“Jay, ti stavo cercando
… Dai vieni, ti porto in un posto, siamo in ritardo” – e lo baciò, quasi
percependo le sue pulsazioni a fior di labbra.
“Cole, ma come …?” –
mormorò sbigottito.
La neve aumentò ed i
loro passi divennero una corsa, verso una chiesetta.
Oltre il portone
intarsiato, c’era una minuscola navata, decorata da decine di corbeille di rose
bianche e centinaia di candele accese un po’ ovunque.
“Solo tu ed io, Jay …
Ed il pastore, ovviamente” – Farrell rise composto – “… Te lo avevo promesso”
Leto annuì, confuso,
seguendolo verso l’altare.
Colin indicò le fedi,
appoggiate sopra un cuscino in raso avorio.
Padre Connor li accolse
gentile, spiegando la breve procedura, per il rinnovo dei voti nuziali.
“Capito tutto Jay?” –
scherzò il moro, tenendolo stretto a sé.
“Sì …” – e si guardò
ancora una volta indietro, ma c’erano unicamente loro.
Loro
e nessun altro.
Miss. Halley aveva un
negozietto di pasticceria, così antico e minuscolo, da sembrare la casa delle
bambole di Camilla.
Law glielo diceva
sempre ed ogni anno passava a trovarla, raccontandole un po’ di quel mondo là
fuori, che l’anziana signora non seguiva neppure alla tv, rifiutandosi di
comprarla, ma leggendo testi di ogni genere, perché la cultura era cibo per la
mente, appetitoso almeno quanto le sue delizie candite.
Lei sapeva di Jude e
Robert, li aveva sempre sostenuti, dimostrando una mente aperta e vivace, nonché
un garbo di rara eleganza e sobrietà.
Ad ogni ricorrenza, Law
andava da lei a fare scorta di dolciumi e torte, spesso con il consorte.
“Prova questi bon bon
al cioccolato belga, Jude …”
“Sì, buoni … Squisiti,
piacerebbero anche a” – e si interruppe, un groppo alla gola.
“Ma Robert, quando
arriva, scusa?” – domandò perplessa.
“Sono qui Alice, stavo
ammirando la tua vetrina”
Law si sentì scoppiare
il cuore.
“Amore …”
“Ciao Jude, scusa il
ritardo, ma quelle giostre a carillon, mi hanno ipnotizzato” – e gli sorrise,
accarezzandogli la schiena.
“Bene, ora che siete
arrivati, prendo lo cherry e ci scambiamo gli auguri, miei adorati ospiti!” –
sentenziò Miss. Halley, aprendo le ante di un mobile dell’ottocento.
Jude e Robert si
guardarono, avvolgendosi reciprocamente in un abbraccio, che valeva più di
mille parole.
Di
mille perdoni.
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