giovedì 9 luglio 2015

NAKAMA - CAPITOLO N. 4

Capitolo n. 4 – nakama



Il riverbero dorato delle acque del lago, filtrava attraverso la tenda in bambù, ondeggiante, al soffio di una brezza preserale, alquanto tiepida e carica di umidità.

Il cigolio del ventilatore a soffitto aveva svegliato Jared, abbandonato su di un divanetto, assemblato da suo zio, con casse di birra, gommapiuma ed un rimasuglio di stoffa colore nocciola.

Macchiata ovunque.
Più del solito, quel giorno.

Il corpo del ragazzino di Bossier City, era scivolato tra quel mobile improvvisato ed un tavolaccio, dove si era consumata parte di quella violenza inaudita ed ingiusta, come ogni sopruso.

Barcollante, le ossa che dolevano, Jared arrivò alla soglia, affacciandosi timido e confuso, su quel panorama magnifico.

Lui, se ne stava sul bordo di un pontile, a pescare, come se nulla fosse accaduto.

“Ehi, vatti a lavare, non ti ci riporto a casa così, se no chi la sente tua madre?”

Anche la sua voce era mutata.
Incazzata e severa, ben diversa da come quell’uomo aveva parlato a Jay sino al mattino stesso.

Fino a quella baracca, dove lo portava sempre e gli insegnava a sistemare le esche su ami aguzzi.

Ecco, era Jared, in quel momento, a sentirsi così: infilzato, spezzato.

Nel profondo.

Annuì, vergognandosi per non essersi allacciato del tutto i jeans sgualciti, come il suo sorriso, che percepì in un’espressione quasi ebete, stranita, stupida.

Corse a fare ciò che quel mostro gli aveva appena detto, anzi, ordinato.

E lui sarebbe rimasto tale, il suo incubo, per il resto della sua vita tormentata ed irrisolta, dopo quell’abuso.


Leto si destò di soprassalto.

Erano a letto, Glam dormiva, girato su di un fianco, verso di lui, per averlo tenuto tra le braccia tutta la notte.

In una sorta di allucinazione, però, Jared vedeva intorno a sé ancora quel posto, al tramonto, inondato da una luce dorata.

La stessa di Haiti ed adesso era nel capanno sulla spiaggia, un posto più confortevole.

Si strofinò la faccia e, finalmente, scrutò la terrazza, con la piscina, i lettini in rattan colore moka, con i cuscini bianco panna, il secchiello del ghiaccio, dove una bottiglia di champagne, offerta dalla direzione, era rimasta sigillata.

Andò a prenderla, togliendo il tappo, nervosamente; il contenuto era ancora fresco, piacevole.

Ne prese un sorso, poi un secondo, infine tossì e si precipitò in bagno, a vomitare.

Geffen si alzò di colpo, allarmato da quei rumori.
Raggiunse Jared in un attimo ed appena gli fu vicino, lo aiutò a liberarsi.

Paterno nei gesti, tenero nelle parole di conforto, quando lo riportò a coricarsi, prendendolo in braccio come se fosse un bambino.

Jared piangeva, silenzioso, composto.
Esausto.




Taylor lo teneva sempre sotto al cuscino e quando il suo cellulare vibrò, ebbe come uno strano presentimento.

§ Sono qui sotto, per favore scendi §

Perentorio, nei toni scritti, ma tragicamente buffo, seduto su di un muretto, tra i giardini ed il parcheggio del resort, la barba incolta, spettinato, Richard era bellissimo, comunque.

Kitsch si affacciò, per verificare se fosse uno scherzo o meno.

Geffen jr non amava prendersi gioco di lui.
Avrebbe dovuto saperlo.

Colin dormiva pesantemente: sul comodino aveva dimenticato una boccetta di tranquillanti, che assumeva per la sua insonnia, da tempo.

Da Parigi.


Taylor indossò bermuda e t-shirt, le infradito e nient’altro.

Aveva il cuore in gola, ma non poteva permettersi di lasciare Ricky, in quello stato poi, solo, là fuori.


Le braccia conserte sul petto, il fiato reso più corto, appena se lo vide davanti, l’architetto rimase rigido nella sua posizione, ma appena si accorse delle iridi lucide di Kitsch, lo abbracciò vigorosamente, scoppiando a piangere.

Si guardarono.

“Ciao Tay … Grazie per … per essere qui”

Richard si era preparato diversi discorsi, ora dimenticati di botto.

“Dopo quello che ti ho fatto … Come riesci ancora a cercarmi?” – domandò in crisi di ossigeno, fissandolo, senza staccarsi da lui.

“Non riesco a farne a meno … Tu sei la mia spina nel cuore e solo andandotene, ho capito quanto potevi farmi male … Dissanguandomi di ogni energia, della voglia di vivere Taylor” – e, nell’affermarlo convinto, non smetteva di segnargli gli zigomi asciutti, sotto alla pelle dorata e liscia.

Il contatto con essa, non si poteva ridurre a quella minima porzione e, con urgenza, Ricky gli infilò le mani sotto la maglietta dei Nirvana, avvolgendolo ancora più tenace e disperato, come il suo baciarlo.

Adesso.




Harry uscì con uno scatto da Louis, che gemette più acuto, nel cuscino, che stava mordendo da diversi minuti.

L’irruenza e la virilità di Styles, lo sconvolgevano da sempre, ma, quella notte, qualcosa non andava.

Si erano trascurati un po’, a vicenda, nelle ultime settimane, per via della laurea di Boo e di un incremento di lavoro, allo studio di Haz, però nulla di preoccupante, secondo il minore dei Tomlinson.

Se non fosse stata per quella sensazione di disagio, che ora Lou stava provando, scomoda ed insistente.

Si guardò i polsi: erano viola, per quanto l’altro glieli aveva intrappolati, tenendolo a pancia in giù, tra le lenzuola da buttare in lavatrice, come quell’amplesso, ma nel dimenticatoio.

“Harry cos’hai?”

Tomlinson lo chiese con velata apprensione, dandosi perennemente la colpa, per i loro problemi di coppia.

In pieno torto, questo giro.

“Niente, vuoi della birra?”

“Alle tre del mattino?”

“Io ho sete, qui si muore dal caldo e l’aria condizionata non serve, tenuta come la tieni tu!” – protestò, indossando veloce i boxer, lasciati sul pavimento.

“E’ per Petra o ti sei dimenticato il suo torcicollo?” – ringhiò.

Ormai era incazzato anche lui, tanto valeva litigare e sfogarsi, ma la voce della bambina, attraverso il baby control, lo fece desistere subito.

Louis fece capolino nella cameretta – “Ehi Tabata!” – con il migliore dei suoi sorrisi, anche se non riusciva realmente a nascondere il proprio dispiacere.

“Che hai papi Boo, hai pianto?” – chiese lei, sveglia in tutti i sensi.

Tomlinson la prese sul petto, cullandola – “Ma no, è questa arsura, amore …”

“Ar … che?!” – Petra rise solare, guardandolo con quelle due pozze di mare, che si ritrovava al posto degli occhi, grandi e splendidi.

“La calura estiva” – e le aggiustò il pigiamino, a calzoncini corti, a palloncino ed una canotta, tempestata di farfalle e coccinelle.

Un regalo di zio Brent.

Fu al fratello, che Louis scrisse un messaggio, prima di tornare a stendersi, trovando Harry già nel mondo dei sogni.

Si sarebbero visti all’indomani.




Richard si spinse dentro di lui, tenendolo sollevato per le gambe, come la sera in cui gli consegnò l’anello di fidanzamento, sul balcone del loft di Kitsch.

Questi, addossato, ora, al muro dei garage sotterranei, livello cinque, dell’hotel, in una zona buia e laterale, lontana dall’apparato di sorveglianza, si teneva a lui, come un superstite, frastornato da quella tempesta di emozioni, ormai esondate in mille rivoli di sudore, umori e lacrime.

Liberatorie.

“Lui ti scopa così? Avanti dimmelo!” – gli ringhiò nel collo, esasperato dallo sforzo e dalla gioia contorta di averlo sottratto a Farrell, anche se probabilmente per poche ore.

Taylor lo guardò, tremante, smarrito.

Ricky si sentì morire.

“Scusami Tay …” – gli soffiò sulle labbra, cercando un po’ d’aria, mentre veniva, senza più nemmeno muoversi di un millimetro.

Gli bastava vederlo, in quell’innocenza, un po’ perversa, che Kitsch sembrava essersi cucito addosso, in grado di assolverlo da ogni accusa: una su tutte, essersi comportato da autentico stronzo con il primogenito di Geffen.

Cosa importava, adesso?

Adesso che si stavano baciando, premurosi, presenti.

“Vieni via con me Taylor … Non te lo chiederò una seconda volta”

La perentorietà, Richard, l’aveva assimilata dal padre, così come la sfortuna in amore, apparentemente.

“Mi rivuoi, nonostante”

“E smettila con questa cantilena! Secondo te prendevo un aereo ridotto così, solo per sbatterti contro questa parete?! Io ti amo cazzo!!”

Kitsch sorrise.

Lo fece anche Ricky.

Poi risero, stringendosi, come mai prima di allora.







La riga bianca scorreva veloce, un pezzo dopo l’altro, come gli anni, che erano corsi via, tra le loro mani, nei reciproci sguardi, sino a quella scogliera.

“Forse tu volevi rimanere …” – esordì triste Jared, appoggiandosi alla balaustra.

“No tesoro, no …”

Geffen inspirò l’aria di mare ed il primo sole del giorno.

Leto chiuse le palpebre, assaporando quella quiete - “Amo Los Angeles, dal primo minuto in cui ci arrivai”

“Sì Jay, forse me lo avevi raccontato, tanto tempo fa, quando mi svelasti qualcosa di te … Un dono raro e prezioso, conoscerti veramente” – e lo avvolse, amorevole, ma senza sentimentalismi.

Glam era un albero.

Una roccia.

Ed era anche il vento.

L’azzurro del mare.


Un controsenso continuo.

Affascinante.

Sapersi amati da lui, era così essenziale e quando smetteva o si imponeva di fartelo credere, una vera tragedia, per la fragilità di Leto.

“Cosa ti va di fare, Jay?”

“Nulla …” – e guardò l’orizzonte – “… sto bene così … Io sto bene con te, Glam” – e voltò il viso per baciarlo.

Intenso.

Alcuni gabbiani si lanciarono giù dalle rocce più alte.


Senza paura.

Senza pensieri.






 RICHARD GEFFEN







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