Capitolo n. 4 – nakama
Il riverbero dorato
delle acque del lago, filtrava attraverso la tenda in bambù, ondeggiante, al
soffio di una brezza preserale, alquanto tiepida e carica di umidità.
Il cigolio del
ventilatore a soffitto aveva svegliato Jared, abbandonato su di un divanetto,
assemblato da suo zio, con casse di birra, gommapiuma ed un rimasuglio di
stoffa colore nocciola.
Macchiata ovunque.
Più del solito, quel
giorno.
Il corpo del ragazzino
di Bossier City, era scivolato tra quel mobile improvvisato ed un tavolaccio,
dove si era consumata parte di quella violenza inaudita ed ingiusta, come ogni
sopruso.
Barcollante, le ossa
che dolevano, Jared arrivò alla soglia, affacciandosi timido e confuso, su quel
panorama magnifico.
Lui,
se
ne stava sul bordo di un pontile, a pescare, come se nulla fosse accaduto.
“Ehi,
vatti a lavare, non ti ci riporto a casa così, se no chi la sente tua madre?”
Anche la sua voce era
mutata.
Incazzata e severa, ben
diversa da come quell’uomo aveva parlato a Jay sino al mattino stesso.
Fino a quella baracca,
dove lo portava sempre e gli insegnava a sistemare le esche su ami aguzzi.
Ecco, era Jared, in
quel momento, a sentirsi così: infilzato, spezzato.
Nel profondo.
Annuì, vergognandosi
per non essersi allacciato del tutto i jeans sgualciti, come il suo sorriso,
che percepì in un’espressione quasi ebete, stranita, stupida.
Corse a fare ciò che
quel mostro gli aveva appena detto, anzi, ordinato.
E lui sarebbe rimasto
tale, il suo incubo, per il resto della sua vita tormentata ed irrisolta, dopo
quell’abuso.
Leto si destò di
soprassalto.
Erano a letto, Glam
dormiva, girato su di un fianco, verso di lui, per averlo tenuto tra le braccia
tutta la notte.
In una sorta di
allucinazione, però, Jared vedeva intorno a sé ancora quel posto, al tramonto,
inondato da una luce dorata.
La stessa di Haiti ed
adesso era nel capanno sulla spiaggia, un posto più confortevole.
Si strofinò la faccia
e, finalmente, scrutò la terrazza, con la piscina, i lettini in rattan colore
moka, con i cuscini bianco panna, il secchiello del ghiaccio, dove una
bottiglia di champagne, offerta dalla direzione, era rimasta sigillata.
Andò a prenderla, togliendo
il tappo, nervosamente; il contenuto era ancora fresco, piacevole.
Ne prese un sorso, poi
un secondo, infine tossì e si precipitò in bagno, a vomitare.
Geffen si alzò di
colpo, allarmato da quei rumori.
Raggiunse Jared in un
attimo ed appena gli fu vicino, lo aiutò a liberarsi.
Paterno nei gesti,
tenero nelle parole di conforto, quando lo riportò a coricarsi, prendendolo in
braccio come se fosse un bambino.
Jared piangeva,
silenzioso, composto.
Esausto.
Taylor lo teneva sempre
sotto al cuscino e quando il suo cellulare vibrò, ebbe come uno strano
presentimento.
§
Sono qui sotto, per favore scendi §
Perentorio, nei toni
scritti, ma tragicamente buffo, seduto su di un muretto, tra i giardini ed il
parcheggio del resort, la barba incolta, spettinato, Richard era bellissimo,
comunque.
Kitsch si affacciò, per
verificare se fosse uno scherzo o meno.
Geffen jr non amava
prendersi gioco di lui.
Avrebbe dovuto saperlo.
Colin dormiva
pesantemente: sul comodino aveva dimenticato una boccetta di tranquillanti, che
assumeva per la sua insonnia, da tempo.
Da
Parigi.
Taylor indossò bermuda
e t-shirt, le infradito e nient’altro.
Aveva il cuore in gola,
ma non poteva permettersi di lasciare Ricky, in quello stato poi, solo, là
fuori.
Le braccia conserte sul
petto, il fiato reso più corto, appena se lo vide davanti, l’architetto rimase
rigido nella sua posizione, ma appena si accorse delle iridi lucide di Kitsch,
lo abbracciò vigorosamente, scoppiando a piangere.
Si guardarono.
“Ciao Tay … Grazie per …
per essere qui”
Richard si era
preparato diversi discorsi, ora dimenticati di botto.
“Dopo quello che ti ho
fatto … Come riesci ancora a cercarmi?” – domandò in crisi di ossigeno,
fissandolo, senza staccarsi da lui.
“Non riesco a farne a
meno … Tu sei la mia spina nel cuore e solo andandotene, ho capito quanto
potevi farmi male … Dissanguandomi di ogni energia, della voglia di vivere
Taylor” – e, nell’affermarlo convinto, non smetteva di segnargli gli zigomi
asciutti, sotto alla pelle dorata e liscia.
Il contatto con essa,
non si poteva ridurre a quella minima porzione e, con urgenza, Ricky gli infilò
le mani sotto la maglietta dei Nirvana, avvolgendolo ancora più tenace e
disperato, come il suo baciarlo.
Adesso.
Harry uscì con uno
scatto da Louis, che gemette più acuto, nel cuscino, che stava mordendo da
diversi minuti.
L’irruenza e la
virilità di Styles, lo sconvolgevano da sempre, ma, quella notte, qualcosa non
andava.
Si erano trascurati un
po’, a vicenda, nelle ultime settimane, per via della laurea di Boo e di un
incremento di lavoro, allo studio di Haz, però nulla di preoccupante, secondo
il minore dei Tomlinson.
Se non fosse stata per
quella sensazione di disagio, che ora Lou stava provando, scomoda ed
insistente.
Si guardò i polsi:
erano viola, per quanto l’altro glieli aveva intrappolati, tenendolo a pancia
in giù, tra le lenzuola da buttare in lavatrice, come quell’amplesso, ma nel
dimenticatoio.
“Harry cos’hai?”
Tomlinson lo chiese con
velata apprensione, dandosi perennemente la colpa, per i loro problemi di
coppia.
In pieno torto, questo
giro.
“Niente, vuoi della
birra?”
“Alle tre del mattino?”
“Io ho sete, qui si
muore dal caldo e l’aria condizionata non serve, tenuta come la tieni tu!” –
protestò, indossando veloce i boxer, lasciati sul pavimento.
“E’ per Petra o ti sei
dimenticato il suo torcicollo?” – ringhiò.
Ormai era incazzato
anche lui, tanto valeva litigare e sfogarsi, ma la voce della bambina,
attraverso il baby control, lo fece desistere subito.
Louis fece capolino
nella cameretta – “Ehi Tabata!” – con il migliore dei suoi sorrisi, anche se
non riusciva realmente a nascondere il proprio dispiacere.
“Che hai papi Boo, hai
pianto?” – chiese lei, sveglia in tutti i sensi.
Tomlinson la prese sul
petto, cullandola – “Ma no, è questa arsura, amore …”
“Ar … che?!” – Petra rise
solare, guardandolo con quelle due pozze di mare, che si ritrovava al posto
degli occhi, grandi e splendidi.
“La calura estiva” – e le
aggiustò il pigiamino, a calzoncini corti, a palloncino ed una canotta,
tempestata di farfalle e coccinelle.
Un regalo di zio Brent.
Fu al fratello, che
Louis scrisse un messaggio, prima di tornare a stendersi, trovando Harry già
nel mondo dei sogni.
Si sarebbero visti all’indomani.
Richard si spinse
dentro di lui, tenendolo sollevato per le gambe, come la sera in cui gli
consegnò l’anello di fidanzamento, sul balcone del loft di Kitsch.
Questi, addossato, ora,
al muro dei garage sotterranei, livello cinque, dell’hotel, in una zona buia e
laterale, lontana dall’apparato di sorveglianza, si teneva a lui, come un
superstite, frastornato da quella tempesta di emozioni, ormai esondate in mille
rivoli di sudore, umori e lacrime.
Liberatorie.
“Lui ti scopa così?
Avanti dimmelo!” – gli ringhiò nel collo, esasperato dallo sforzo e dalla gioia
contorta di averlo sottratto a Farrell, anche se probabilmente per poche ore.
Taylor lo guardò,
tremante, smarrito.
Ricky si sentì morire.
“Scusami Tay …” – gli soffiò
sulle labbra, cercando un po’ d’aria, mentre veniva, senza più nemmeno muoversi
di un millimetro.
Gli bastava vederlo, in
quell’innocenza, un po’ perversa, che Kitsch sembrava essersi cucito addosso,
in grado di assolverlo da ogni accusa: una su tutte, essersi comportato da
autentico stronzo con il primogenito di Geffen.
Cosa importava, adesso?
Adesso che si stavano
baciando, premurosi, presenti.
“Vieni via con me
Taylor … Non te lo chiederò una seconda volta”
La perentorietà,
Richard, l’aveva assimilata dal padre, così come la sfortuna in amore,
apparentemente.
“Mi rivuoi, nonostante”
“E smettila con questa
cantilena! Secondo te prendevo un aereo ridotto così, solo per sbatterti contro
questa parete?! Io ti amo cazzo!!”
Kitsch sorrise.
Lo fece anche Ricky.
Poi risero,
stringendosi, come mai prima di allora.
La riga bianca scorreva
veloce, un pezzo dopo l’altro, come gli anni, che erano corsi via, tra le loro
mani, nei reciproci sguardi, sino a quella scogliera.
“Forse tu volevi
rimanere …” – esordì triste Jared, appoggiandosi alla balaustra.
“No tesoro, no …”
Geffen inspirò l’aria
di mare ed il primo sole del giorno.
Leto chiuse le
palpebre, assaporando quella quiete - “Amo Los Angeles, dal primo minuto in cui
ci arrivai”
“Sì Jay, forse me lo
avevi raccontato, tanto tempo fa, quando mi svelasti qualcosa di te … Un dono
raro e prezioso, conoscerti veramente” – e lo avvolse, amorevole, ma senza
sentimentalismi.
Glam era un albero.
Una roccia.
Ed era anche il vento.
L’azzurro del mare.
Un controsenso
continuo.
Affascinante.
Sapersi amati da lui,
era così essenziale e quando smetteva o si imponeva di fartelo credere, una
vera tragedia, per la fragilità di Leto.
“Cosa ti va di fare,
Jay?”
“Nulla …” – e guardò l’orizzonte
– “… sto bene così … Io sto bene con te, Glam” – e voltò il viso per baciarlo.
Intenso.
Alcuni gabbiani si
lanciarono giù dalle rocce più alte.
Senza
paura.
Senza
pensieri.
RICHARD GEFFEN
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