giovedì 26 gennaio 2017

NAKAMA - CAPITOLO N. 90

Capitolo n. 90 – nakama



I gemelli sgattaiolarono nella stanza dei genitori, scortati da Colin, che teneva sul petto Syria, sgambettante e impaziente di essere cullata da Jared, destatosi al loro rumoroso e amorevole arrivo.

“Ehi cuccioli”

“Ciao tesoro, Glam mi ha dato in ostaggio questa principessa”

“Buongiorno Cole, ma guarda, venite qui tutti” – e li raccolse, stringendo forte i bimbi, mentre cinturava il busto del consorte, accomodatosi sul bordo del letto.

“Passata l’emicrania?” – domandò l’irlandese, a bassa voce, mentre lo baciava nel collo, provocandogli brividi, dalla nuca alle scapole.

“Sì amore … Buon Natale” – e gli sorrise, rapito dal profumo del suo dopobarba, dai suoi quarzi liquidi e innamorati perdutamente di lui.

“Buon Natale Jay”




La formosa cassiera del drugstore, gli aveva regalato uno dei suoi migliori sorrisi, dopo l’una di notte, oltre a calorosi auguri – “JD non la vuoi proprio fare la nostra tessera, per la raccolta punti?” – gli aveva chiesto per l’ennesima volta.

“Meglio di no”, le avrebbe risposto, ma fece solo una smorfia, abbozzando un sorriso di ricambio e un buon Natale stropicciato, tra un colpo di tosse e un’occhiata al portone, dal quale era appena uscito, senza rinunciare a quegli acquisti, per il pranzo del giorno dopo.

Rivedere Philip: a questo Morgan non avrebbe rinunciato mai.

Almeno a questo.


Ora JD se ne stava in piedi, il cartone della spesa premuto sull’addome asciutto, impalato davanti ad un’altra porta: quella del bilocale di Lukas e del figlio.

Phil gli aprì solerte, con un sorriso stampato sul volto acerbo, che mai il padre avrebbe dimenticato.

Come molte altre cose.
Altri episodi, scomodi e sgradevoli.



“Papà! Buon Natale, dai entra, ma il tuo coinquilino?” – chiese guardando oltre Morgan, rigido e senza risposte.

Le ante scorrevoli dell’ascensore, si erano appena chiuse.

“Sono qui, non trovavo parcheggio” – si giustificò Reedus, con due bottiglie di champagne in mano e dei cioccolatini.

“Norman” – la voce di JD si spezzò.

“Ti ho seguito” – gli disse piano l’altro, passandogli accanto, mentre porgeva i propri doni a Lukas, appena sopraggiunto sulla scena.

Il biondo si stava sforzando di non inquinare quel momento, con le sue perplessità.
Philip era invece stranamente concentrato sull’amico del genitore, che venne trascinato in cucina, dal ragazzo, con una scusa.

“Ehi papà, ma quello non ti aveva arrestato ai tempi del casino con West?”

Era buffo nel suo esprimersi, complice e a bisbigli concitati.

“Sì è lui” – replicò frastornato l’uomo.

“E ci vivi insieme? No, perché io lo ricordo anche al tuo processo, testimoniò, disse cose tremende”

“Erano la pura verità” – ammise Morgan, fissandolo.

“Anch’io ne dissi, a essere sinceri papà …” – ripeteva quel termine, colmandosene il cuore.

“E anche tu lo eri, sincero intendo: ogni azione, ha le proprie conseguenze, Phil ed io le ho scontate tutte, almeno lo spero” – e gli accarezzò le guance un po’ scarne.

Philip sorrise, buttandogli le braccia al collo – “Ma ora sei qui, con me, con noi, andrà tutto bene, vero?”

Reedus era appena arrivato alle spalle del giovane, fermandosi sulla soglia, provando un certo disagio, ma senza mai abbassare lo sguardo su Morgan, che lo aveva pieno di lacrime.

“Tuo padre si è rimesso in carreggiata, te lo assicuro”

Philip si voltò di scatto.

Il poliziotto gli tese la mano – “Io sono Norman, è un piacere conoscerti: JD non fa che parlare di te” – e gli sorrise.

Il ragazzino gliela strinse, quella mano asciutta e decisa – “Piacere … Ma tu sei il suo agente di riferimento? Quello che si deve chiamare tutti i giorni?”

“No … No, le cose non stanno così” – e a quel punto, Reedus, perse la sua apparente sicurezza.

“E come stanno allora?” – Phil sorrise spaesato, tornando a guardare il padre, in piena confusione.

“E’ una storia lunga e complicata” – provò a spiegargli Norman, non sapendo che pesci pigliare.

Sua nonna, però, gli diceva sempre, che la verità rende liberi e che è la strada più semplice da seguire, quando ci si sente in trappola.

Forse aveva ragione.
Forse no.

“Ci puoi lasciare da soli un attimo, tesoro?” – chiese improvviso Morgan e Phil gli ubbidì, dandogli un bacio sulla guancia destra, prima di tornarsene in salotto, dove Lukas stava preparando la tavola.




La barba incolta di Jude, gli stava facendo il solletico, da circa dieci minuti, all’altezza dell’ombelico.

Law si era addormentato lì, dopo una notte trascorsa a parlare con il marito, a ricordare, a ridere.

Poco più su, il segno della cicatrice, dopo la sparatoria al cottage di White, era ancora fresco.

L’inglese aveva paura di osare, di avere rapporti sessuali completi con Downey, come se questi, fosse una bambola di porcellana, prossima a rompersi o a rovinarsi.

Così si prendeva cura di Robert, procurandogli orgasmi meravigliosi, con quelle labbra ben disegnate, quasi ogni giorno, da quando l’americano era stato dimesso.

Senza volere nulla in cambio, affinché Robert non si stancasse.

Forse erano unicamente i sensi di colpa, avrebbe detto qualcuno.
Qualcuno, che non li conosceva affatto.

“Ehi sei sveglio? Le tue lunghe ciglia, direbbero di sì” – sussurrò il moro, accarezzandogli i capelli rasati.

“Certo Holmes”

“Bene Watson, allora che ne diresti di fare colazione?”

Law voltò il capo, in direzione dei suoi pozzi d’inchiostro: il busto nudo di Downey era piegato e girato sul fianco sinistro e, al contempo, la sua espressione tenera e intensa.

Nel riverbero di quel mattino di sole, il suo candore era magnifico, toglieva il fiato.

E le parole.

Jude arrivò alla sua bocca, baciandola avidamente.
Con lo stesso impeto, cercò nel cassetto del comodino, un lubrificante, notato la sera prima e dimenticato lì da un bel pezzo.

Erano secoli, che la coppia non soggiornava più alla End House, anche a causa del sisma.

“A amore” – balbettò il più anziano, bloccato sotto al corpo virile e in forma del consorte, che ben presto si sarebbe ricongiunto al suo.

Dopo settimane.

Era tutto rimasto sospeso, tra le premure di Law e tante cose non dette, anche a proposito di Taylor, nonostante un misero chiarimento, quando Downey era ancora in ospedale.

In quel contesto, il pianto di Jude, aveva posto fine al confronto amaro dei due e, forse, all’ennesima crisi.

I fianchi più massicci di John Watson, invasero l’abisso accogliente del suo eterno amore.

“Non … Non so se ti tradirò ancora Rob, ma sappi che” – in affanno, Jude riuscì a verbalizzare un pensiero, per lui, ossessivo – “sappi che amerò sempre e soltanto te … Sempre!” – gli ruggì in gola, mordendogli il mento, baciandolo febbrile, sudato, stupendo, nella sua avvenenza ancora intatta.

Robert si sentì mancare, per l’eccesso di endorfine, che esplosero di lì a poco in entrambi.

Era come se una corrente calda, si fosse rimescolata alle sue acque più tranquille, senza onde.
Senza emozioni, se Law non fosse esistito.
Se non gli avesse scorso nel sangue, bollente e devastante.

Assoluto.
Come il loro legame.




Le ossa sporgenti, del bacino di Jared, così invitanti, custodite da una pelle candida e liscia, che Colin non esitò a divorare di baci, vibrarono, in un sussulto, appena l’attore iniziò quella tortura d’amore, lussuriosa e agognata.

Farrell si stava prendendo tutto il tempo necessario, per donare al compagno, quel che di meglio, li aveva uniti sin dal principio.

Il sesso non era mai stato un problema, semmai un antidoto, un rimedio, anche uno stratagemma, a cui ricorrere, quando tutto andava storto.

Le prime volte, c’era esitazione oppure sfrontatezza, di certo un senso di possesso reciproco, sapendo di appartenersi, verso un’eternità discontinua e complicata.

Eppure, rimescolati in piena sintonia oppure alla deriva, Jared e Colin si erano puntualmente salvati, a volte a turno, spesso in un moto reciproco, di sostegno e ostinazione.

La loro storia non doveva finire mai e sarebbero divenuti amanti, se mai legati ad altre persone, che, puntuali, sparivano dal loro cammino, stritolati da un amore, capace di rinascere, dalle ceneri più roventi a quelle, ingannevolmente, più spente e innocue.

Era un tormento, il suo esitare, per il cantante dei Mars, il suo rimandare la collisione, il frantumarsi, l’uno nell’altro, come se fosse ancora e sempre, la prima volta.

In quell’occasione, Jared si convinse, per una sensazione, che mai avrebbe saputo spiegare a nessuno, che Colin Farrell, avrebbe segnato il suo destino, sino alla fine dei giorni.

Tra tanti amori, Colin avrebbe, anche se lontano, fatto la differenza, a ogni ritorno, in qualsiasi rimorso o, peggio, rimpianto.

Leto ci aveva provato, a dimenticarlo, tradito, ingannato, persino usato da uno sprovveduto bad boy di Dublino, come la stampa amava definirlo, un’etichetta dura da staccare, per pr e manager, però Colin lo aveva riconquistato, ogni fottutissima volta.

Il loro villino, tra i boschi d’Irlanda, Fuck the world, è ciò che gli venne in mente, mentre Farrell precipitava in lui.

Era lì e non nella residenza di Los Angeles, che il front man, voleva invecchiare insieme a Colin, brontolando, lamentandosi, scrivendo lettere ai figli, sparsi per il pianeta, perché loro li avrebbero lasciati andare tutti, verso i propri sogni, senza mai interferire.

Poi si guardarono.
E si videro.

Sulla spiaggia marocchina, camminare affiancati, dopo l’ennesimo litigio, la solita bevuta, con la paura di perdersi, le dita ciondolanti, che si intrecciavano.

Erano ancora vivi.

“Jay”

E la sua danza forsennata, in quell’apertura stretta, si sublimò in quel semplice termine, che per Colin era tutto.

Era l’immenso.

Così il suo divenire, all’unisono con Jared, che marchiò la sua schiena, con le unghie, la sua clavicola tatuata con i denti, perché Farrell era suo.

Soltanto suo.
Per sempre.




“Che c’è Walt?”

Pinkman lo chiese, con le guance gonfie di cibo, masticando un po’ ingordo, gli occhi sgranati sul più vecchio, al capo opposto del tavolo ovale, in mezzo al loro nuovo living.

Quell’espressione, era tipica di Jesse, mentre mangiava.
E parlava.
Parlava ininterrottamente, ai commensali, come in una serata lontanissima, era accaduto con White e la di lui moglie, Skyler.

Lei, mezza brilla, non dava retta a quel ragazzino, che il marito già si scopava nel camper/laboratorio mobile, esaltato per i lauti e insperati guadagni, provenienti dallo spaccio di metanfetamine purissime.

Lo eccitava farselo, tra alambicchi, provette, bidoni di reagenti e vetrini, mentre gli insegnava a diventare un chimico esperto.

Pinkman era una frana, almeno all’inizio, come a scuola, ma per scopare e cercare contatti tra gli spacciatori, era perfetto.

White lo aveva sfruttato a dovere, poi persino venduto ad una banda di trafficanti messicani, perché quel delirio di onnipotenza, gli aveva corroso la mente, più del cancro, che quasi gli divorò i polmoni.

La malattia si risolse, così le sorti di Jesse, che Walt salvò, rocambolescamente, promettendogli amore e rispetto, da quel momento in poi.

L’impegno, l’ex prof, lo mantenne senza più ricadere in errori deleteri.

Per Jesse, quella era la felicità.
Stop.

“Niente ti guardo” – replicò White, la gola secca, di sicuro non per colpa dei farmaci.

Bensì, del dubbio, che gli toglieva sonno ed energie, come la notte prima, mentre rimase a scrutare Jesse, vegliando sul suo riposo sereno, ma solo a tratti.
Certi incubi, spesso tornavano, facendo scattare il più giovane, tra le lenzuola madide e stropicciate, non certo di amplessi, durante quell’ultimo periodo.

Jesse era stato torturato e forse anche peggio, ma con Walt, non ne aveva mai voluto parlare.
Davvero mai.

“Sono bello?” – Pinkman rise.

“Sì amore, lo sei” – e avrebbe voluto piangere, per quanto e come lo avesse derubato, in un tempo, che nessuno dei due si sarebbe mai buttato alle spalle con facilità.

Un ulteriore argomento da non affrontare.
Per non rovinare la loro nuova esistenza californiana, dopo la collaborazione con l’FBI e l’ottenimento dell’immunità totale, per i crimini pregressi.


“Ti ho comprato un regalo Walt” – e si precipitò a prenderlo, sotto l’albero in fibre ottiche, piazzato davanti ad una porta finestra, dalla quale si vedeva l’oceano.

“Buon Natale Mr. White” – e glielo porse, posando un bacio sulla sua fronte umida.

“Non stai bene Walt, hai caldo? Abbasso il riscaldamento se vuoi”

“Smettila di!” – White si morse le labbra, stritolando i braccioli della sedia a rotelle.

“Di fare cosa …?” – bissò sommesso il partner.

“Di fare quello che fai, per uno come me, che non ti merita, ecco!”

Jesse inghiottì amaro, ma con estrema dignità affrontò la situazione – “E’ tardi per certi atteggiamenti, noi abbiamo superato i nostri problemi, ok?”

Walt si scostò, imbranato con quell’aggeggio, che gli serviva a spostarsi, oltre alle stampelle.

“I nostri problemi?!? Ma guardami, cosa ti trattiene Jesse, dopo quello che ti ho fatto passare, che ti ho fatto subire?! Hai dei nuovi conoscenti, presto mi darai un calcio e Dio solo sa quanto lo merito, cazzo!!”

Pinkman si inginocchiò, davanti alle sue gambe martoriate, ma in via di guarigione.

Nulla era perduto.

Le sue iridi tremolarono, divenendo specchi di rugiada, cristallo e sale: era bellissimo.

“Loro … Loro hanno abusato di me, ognuno di loro e poi mi hanno picchiato, quando ero diventato un giocattolo rotto, che non li divertiva più … Alla fine mi hanno lasciato in pace, perché gli servivo a produrre quella merda e dovevo essere lucido e collaborativo … Erano rimaste le botte, quelle sì, a terrorizzarmi, a rendermi schiavo letteralmente, legato ad una catena, anche quando mi nutrivo, di quel poco, che mi avanzavano … E’ stato umiliante, un degrado che non saprei descriverti altrimenti, Walt, ma in ogni istante, io pensavo a te e a quei rari momenti, durante i quali tu mi hai voluto bene, anche se lo avresti negato, con chiunque, soprattutto con me, ok?”

“Jesse …”

“Io ti amo Walt e ho resistito, nella speranza di riviverli, un giorno, quei rari momenti, quegli sprazzi di gioia: perché, per me, era così” – e si tamponò gli zigomi bagnati, con i dorsi delle mani.

Un po’ infantile, ma di una sconfinata tenerezza, nel donarsi a lui, senza difese, senza compromessi.

White scivolò verso il suo abbraccio generoso, per stringerlo, singhiozzando, gemendo, come una bestia ferita.

“Perdonami piccolo, perdonami, se no impazzisco!”

“Ma io l’ho già fatto … Walt, guardami!”

White lo fece.

Pinkman lo baciò, con innocenza e foga.

La stessa, con cui riuscirono a fare l’amore.
Su quel pavimento freddo e scomodo, ma non per loro.




Reedus continuava a sfiorarlo, a parlargli sotto voce, mentre JD puliva e tagliava insalata, scaldando le numerose vivande, che si era procurato, per quel pranzo speciale.

“Dove hai dormito?”

“Al motel dell’angolo … Credevo mi avessi seguito”

“Sì, da quando ti sei fermato con la Mustang, nel piazzale qui sotto: ho accesso al database dei residenti, è stato semplice trovare l’indirizzo di Philip”

Morgan sorrise mesto – “Era meglio se non lo facevi Norman”

“E perché, sentiamo?” – domandò più duro.

JD inspirò greve, concentrandosi su pomodori e lattuga, del resto, grazie al lavoro da Jacob, era diventato un esperto.

“Toglierò il disturbo, non sentirai più parlare di me, però ti affido Philip: so che ne avrai cura, come se fosse tuo, io lo so e basta, Norman” – ripetere il suo nome, gli dava forza, in quel terribile frangente – “e so che, se ne avrai la possibilità, lo farai curare, riuscendo dove io ho fallito, perché questo è ciò che sono, un fallito su tutta la linea e poi la sai ancora una cosa? Probabilmente c’era il modo, per non ridursi in quel modo, per evitare di commettere una rapina e anche peggio!” – ringhiò, esasperato da quel vicolo cieco.

“JD io troverò il modo, invece, di farti riabilitare!”

“E come? Con un buon avvocato, stile Geffen?! Con il rischio di tornare a marcire in una cella? No grazie!”

“Invece io ci riuscirò, maledizione!”

“E per quale dannata ragione dovresti farlo, Norman?!”

“Perché io”

“Ehi papà, ma non vedi che l’acqua bolle?!”
Phil era tornato, interrompendoli bruscamente.

“Sì cavoli, è vero, scusa … Norman mi passi gli spaghetti, per favore?”

“Certo …” – annuì in crisi di ossigeno lo sbirro.

Le chiacchiere di Philip, i silenzi di Lukas, le occhiate tra Norman e JD, si rimescolarono, davanti ai piatti fumanti, in un’atmosfera strana.

Poi Reedus iniziò a parlare di moto e Lukas si accese, di interesse e parlantina sciolta.

Philip ne sembrò soddisfatto, anche se avrebbe preferito che quell’apparente intesa, si innescasse tra il suo ragazzo e il padre, non certo con quel tipo strano, che mai gli era sembrato un rappresentante della legge credibile.

“Ce la guardiamo un po’ di tv, mentre Lukas e Norman sparecchiano? Il lavatoio tocca a voi, papà ha pensato a tutto il resto, ok?” – propose simpatico l’archivista a Morgan, che perdeva un battito, ad ogni sguardo del tenente.

Una volta sul divano, Phil non tardò ad addormentarsi, allacciato al genitore, che lo teneva tra le proprie ali, senza nascondere la propria commozione.

Lukas sorrise – “Succede sempre così … E’ la digestione a fregarlo, sembra persino perdere i sensi talvolta, certi spaventi, sai?”

“Lo immagino … JD è al settimo cielo, in compenso”

Lukas prese un respiro – “Credi davvero che Morgan sia cambiato? I servizi sociali hanno consigliato a Phil di evitarlo, non è mai andato in visita da lui, in carcere, infatti: gli assistenti gli raccontarono che il padre era diventato pericoloso, un vero criminale, ecco” – gli confidò, una volta arrivati al lavello.

“JD non è più quello di prima: sarà faticoso dimostrarlo, ma ci riuscirà, vedrai” – e li raggiunse, lasciando Lukas in disparte, senza alcuna volontà di offenderlo, ovviamente.

Il giovane si sentì comunque escluso, da quella che, non avrebbe esitato definire una nuova famiglia.

Reedus si accomodò sul tavolino, tra riviste e telecomandi di Play Station, dando un bacio a Morgan.

“Perché io ti amo, JD: ecco perché lo farò.”

E fu come una sentenza, alla quale Morgan, non si sarebbe mai più sottratto.

Mai più.
















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