giovedì 14 aprile 2016

NAKAMA - CAPITOLO N. 54

Capitolo n. 54 - nakama




“Mezzanotte e un minuto … Buon compleanno Jay”

Il sorriso dell’irlandese lo avvolse, come le sue braccia, tatuate e muscolose, dapprima con tenerezza, poi ardore, identico a quello che il rinnovato consorte, gli stava profondendo, con baci, sempre più intensi.

Dalle labbra, al collo, più giù sullo sterno e poi oltre, inabissandosi tra le sue gambe magre, dove Farrell gli abbassò i pantaloni eleganti, i boxer, trasportandolo nella sua medesima nudità, dorata, liscia, invitante.

Jared gemette forte, per quell’assalto umido, per la bocca di Colin, ingorda di lui, sino a farlo venire, dopo pochi minuti.
Lo voleva troppo.
Era così, dal primo istante.
Leto realizzò, che, forse, questo li aveva come predestinati, ad un cammino faticoso, ma ambito da molti e conquistato da pochi.

Loro due ne facevano parte, di questa élite senza tempo, senza radici, senza più rancori.

Sino al prossimo ostacolo.




La festa per le doppie nozze ed il b-day di Jared, ormai sparito di scena, giunse al culmine, con uno spettacolo pirotecnico, sponsorizzato da Geffen, nel bel mezzo delle piste, ancora affollate, per alcune esibizioni in notturna, delle diverse scuole di sci locali.

Glam, piuttosto brillo, ciondolava sotto ad un porticato, dove Richard lo raggiunse.

Era arrivato da poco, con Taylor, per trascorrere una settimana sulle nevi, con il fidanzato, letteralmente in fuga dal caos di Los Angeles e dai reciproci impegni, rimandati ormai all’anno nuovo.

“Papà, ehi, ma che ci fai qui, con quella bottiglia vuota?” – il primogenito dell’avvocato rise, nonostante una velata ansia, nel ritrovarlo ridotto in quel modo.
Detestava vederlo così.
E poi per cosa?
Per chi?

“Ciao figliolo … Hai ragione, è un crimine, non averne una piena!” – e, ridacchiando, Glam si appoggiò ad una parete in mattoni.

“Perché fai così …?” – chiese sconsolato, togliendogli quell’ingombro, per poi gettarlo in un bidone, lì vicino.

“Dovresti buttarci anche me … lì dentro intendo” – biascicò, raggiungendo faticosamente un muretto, sul quale di schiantò greve, come il suo respiro.

“Non stai bene papà? Dai ti porto in stanza, cazzo!” – quasi ringhiò l’architetto, provando a sollevarlo, ma Geffen lo scostò, chiedendogli poi scusa.

“Sto alla grande … Mi … mi sto preparando a togliere dalla circolazione una canaglia, sai? Domani … in città”

“Torni a casa?” – domandò stupito.

Geffen annuì, scrutando il vuoto, come smarrito – “Forse … forse ho fatto finta di non vedere, commettendo uno sbaglio imperdonabile” – rivelò in lacrime, all’improvviso.

“Ma di che parli?!”

“Del … del giudice Nelson, te lo ricordi?”

Ricky sbuffò – “Il padre di Paul?”

“Esatto”

“Paul si è rifatto vivo?”

“Già, una bella sorpresa, sai?”

“Credevo fosse in galera” – e si accomodò anche lui, affiancandolo.

“Ha combinato un sacco di casini, ma adesso è … è cambiato” – e chiuse la frase, con un singulto poco elegante.

“Ah capisco, ma tu quando l’hai visto?”

“In hotel, sì, insomma era con Norman”

“Norman?”

“Reedus, della narcotici, uno sbirro”

“Che lo aveva arrestato?”

“No, no … anzi … E’ una lunga storia … e l’epilogo mi aspetta al varco, credimi”

“Papà andiamo, su alzati: a me importa di te, non delle stronzate, che ha fatto Paul”

Geffen si erse in piedi di scatto, speculare a lui – “Paul è una vittima” – affermò lucido – “e avrà giustizia: fosse l’ultima cosa che faccio.”







Il corridoio, sembrava non finire mai.
Alla fine, finì.
Così come le mani grandi di Glam Geffen, sulla porta a due ante, che aprì, con un gesto fluido, nell’avvicinarsi, a passo veloce, pesante, allo scranno di Howard Nelson.

L’uomo, ingrigito dagli anni, durante i quali si erano persi quasi di vista, lo puntò stranito e oltraggiato.

“Glam, sono in udienza, ma cosa credi di fare?!”

Alle spalle del legale, un nugolo di agenti e non solo.

“Tenente Reedus, legga i diritti all’imputato, prima di portarlo via” – esordì fermo Glam, senza mai smettere di guardarlo.

“Imputato, ma stai vaneggiando?! E lei, Reedus, è dell’antidroga, cosa diavolo vuole da me?!” – sbottò acre, mentre due poliziotti lo invitavano a seguirli, senza opporre resistenza.

“Reedus vuole arrestarti, per l’ingente quantità di sostanze stupefacenti, ritrovate e repertate all’interno della tua residenza, ecco il mandato!” – e glielo sbatté sul petto, senza alcun riguardo.

“Ma … non è possibile, è … è una trappola!”

“Se ciò non bastasse, questo è l’ordine di custodia, per molestie sessuali: capitano Hosting, se vuole procedere” – Geffen si mise di lato, per lasciare posto al funzionario della sezione speciale, vittime di abusi, che cominciò a sciorinare le accuse, denunciate “… da Paul Rovia, con il sostegno di prove video, messe agli atti e” – lo guardò rigido – “… incontrovertibili: Howard Nelson, la dichiaro in arresto per stupro ai danni di un minorenne, con l’aggravante della crudeltà e delle sevizie, nonché per averlo indotto alla dipendenza da eroina e cocaina: andiamo!” – e lo spinse drastico, verso l’uscita.

Norman era rimasto zitto, pietrificato da quell’amara scoperta.
Rovia non era riuscito a parlargliene apertamente, anche se lui aveva intuito, cosa lo tormentasse e che li accumunava, in un legame, che era rimasto come sospeso.

Il cellulare gli vibrò nella tasca dei jeans.

“E’ Paul … Sì, pronto”

Poi tutto accadde in fretta.
Talmente in fretta, che nessuno riuscì a impedirlo.
Howard Nelson, aspirante senatore, con velleità di arrivare alla Casa Bianca, sottrasse l’arma alla matricola, che lo stava conducendo verso l’esterno del tribunale, con una mossa disperata e risolutiva.
Come il colpo, alla tempia, che pose fine alla sua esistenza.
Definitivamente.




Gli occhi di Paul, sarebbero rimasti impressi nella mente di Reedus, per sempre.

Adesso il corridoio era quello della clinica e, a raggiungerlo, erano unicamente lui e Glam.

Rovia si stringeva nelle spalle, le gote arrossate e lucide di un pianto dignitoso, ma ininterrotto, dall’alba, di quella mattina crudele.

Norman lo avvolse, istintivo, amorevole.

“Si … si è addormentata … la … la mamma … ora è in pace” – singhiozzò esausto.

Geffen prese un lungo respiro.

“Tesoro devo”

“No Glam … glielo dico io” – mormorò Reedus, cullando Paul, come se fosse appena venuto al mondo.

Bisognoso di protezione e amore.
Niente di più, di questo tutto, che Norman era pronto a donargli,

Senza compromessi.




Le chiavi dell’Hummer finirono su di una mensola, nell’ingresso secondario della villa di Palm Springs.

Geffen si ossigenò, per nulla rilassatosi, durante il tragitto, mentre si allontanava dalla città degli angeli, verso l’oceano.

“Daddy, ma dov’eri finito?”

La voce affettuosa e vibrante di Kevin, lo investì, come una brezza di primavera, ancora lontana.

“Ciao … Dove sono gli altri?”

“Un po’ in spiaggia, qualcuno sparso qua e là” – il bassista rise, azzerando la distanza, per prendergli la giacca.

“Fa caldo”

“Sì Glam, mi sembri così stanco: che è successo?”

“Ti dispiace se ne parliamo più tardi?” – replicò gentile, dandogli una carezza tra le scapole, mentre si avviavano verso il patio, dove Robert e Jude stavano giocando a carte, con Lula e Pepe.

Sembrava tutto così normale.
Quotidiano.

Tim faceva le treccine a Dady, Camy e Petra, mentre Isotta giocava a ping pong, contro Jared e Colin, alleatisi per quella sfida, contro lei e Rebecca.

Louis e Harry passeggiavano sulla battigia, seguiti a breve distanza da Scott e Jimmy, anch’essi allacciatisi, come adolescenti.

Come lo era Paul, quando Nelson lo aggredì.
Quel flash back infiammò i pensieri di Geffen, che rientrò brusco nel living.

“Vado a riposarmi, domani andiamo in Brasile, Lula ed io” – affermò secco.

“Glam, ma non vorrai davvero dare retta a quella squilibrata?!”

Ormai l’ex non lo stava più ascoltando, già in cima alle scale, distante e tetro, come mai prima di allora.




“E’ tuo questo posto?”

Reedus lo chiese circospetto, guardandosi in giro, mentre Paul cercava qualcosa, in mezzo a dei vasi di erbe aromatiche.

“Sì … ah eccola” – e tirò su dal naso, infantile e fragile – “… era del nonno, me l’ha lasciata in eredità … mi voleva un gran bene, sai?”

“E’ una meraviglia”

Sì, la era, a venti metri dallo sciabordio delle onde, increspate d’arancio, in quel tramonto a Malibu.
Una dimora a due piani, con un giardino rigoglioso, ben tenuta, anche se disabitata da un bel pezzo.

“La mamma ha pagato un’impresa, ogni mese, perché la tenesse in ordine, sperando che io ci tornassi” – disse in un soffio, attivando la corrente elettrica ed aprendo i serramenti, per arieggiare l’ambiente.

“Vuoi viverci, Paul?”

Reedus se ne stava impalato, divorato dalla curiosità, tra un attaccapanni e un vaso cinese.

Rovia si girò, con un mezzo sorriso – “Devo farti una domanda, Norman”

Il piedipiatti deglutì a vuoto – “Ok falla”

“Devi proprio startene lì?” – e gli tese le mani affusolate.

“No, anzi” – e tossì, azzerando la distanza, un po’ goffo.

Riuscendo persino a farlo ridere leggero, nonostante Rovia fosse devastato da un carico, eccessivo di emozioni contrastanti.

“Sei sicuro?”

“Di cosa Paul?”

“Di volermi rispondere” – e si umettò le labbra perfette.

“Certo!” – ribatté, buffo.

Il più giovane gli afferrò i polsi, con un certo impeto, come a darsi coraggio.

“Paul …”

E fu quel tono, intriso di armonia e dolcezza, che non lo fece esitare oltre.

Lo baciò.

Intrecciandosi poi, a poco, a poco, a Reedus, che smise di percepire quanto li circondava, come se fossero precipitati in un sogno.

Dove fu bellissimo, rifugiarsi.
Insieme.




















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