Capitolo n. 90 – nakama
I gemelli
sgattaiolarono nella stanza dei genitori, scortati da Colin, che teneva sul
petto Syria, sgambettante e impaziente di essere cullata da Jared, destatosi al
loro rumoroso e amorevole arrivo.
“Ehi cuccioli”
“Ciao tesoro, Glam mi
ha dato in ostaggio questa principessa”
“Buongiorno Cole, ma
guarda, venite qui tutti” – e li raccolse, stringendo forte i bimbi, mentre
cinturava il busto del consorte, accomodatosi sul bordo del letto.
“Passata l’emicrania?”
– domandò l’irlandese, a bassa voce, mentre lo baciava nel collo, provocandogli
brividi, dalla nuca alle scapole.
“Sì amore … Buon
Natale” – e gli sorrise, rapito dal profumo del suo dopobarba, dai suoi quarzi
liquidi e innamorati perdutamente di lui.
“Buon Natale Jay”
La
formosa cassiera del drugstore, gli aveva regalato uno dei suoi migliori
sorrisi, dopo l’una di notte, oltre a calorosi auguri – “JD non la vuoi proprio
fare la nostra tessera, per la raccolta punti?” – gli aveva chiesto per
l’ennesima volta.
“Meglio
di no”, le avrebbe risposto, ma fece solo una smorfia, abbozzando un sorriso di
ricambio e un buon Natale stropicciato, tra un colpo di tosse e un’occhiata al
portone, dal quale era appena uscito, senza rinunciare a quegli acquisti, per
il pranzo del giorno dopo.
Rivedere
Philip: a questo Morgan non avrebbe rinunciato mai.
Almeno
a questo.
Ora JD se ne stava in
piedi, il cartone della spesa premuto sull’addome asciutto, impalato davanti ad
un’altra porta: quella del bilocale di Lukas e del figlio.
Phil gli aprì solerte,
con un sorriso stampato sul volto acerbo, che mai il padre avrebbe dimenticato.
Come molte altre cose.
Altri episodi, scomodi
e sgradevoli.
“Papà! Buon Natale, dai
entra, ma il tuo coinquilino?” – chiese guardando oltre Morgan, rigido e senza
risposte.
Le ante scorrevoli
dell’ascensore, si erano appena chiuse.
“Sono qui, non trovavo
parcheggio” – si giustificò Reedus, con due bottiglie di champagne in mano e
dei cioccolatini.
“Norman” – la voce di
JD si spezzò.
“Ti ho seguito” – gli
disse piano l’altro, passandogli accanto, mentre porgeva i propri doni a Lukas,
appena sopraggiunto sulla scena.
Il biondo si stava
sforzando di non inquinare quel momento, con le sue perplessità.
Philip era invece
stranamente concentrato sull’amico del genitore, che venne trascinato in
cucina, dal ragazzo, con una scusa.
“Ehi papà, ma quello
non ti aveva arrestato ai tempi del casino con West?”
Era buffo nel suo
esprimersi, complice e a bisbigli concitati.
“Sì è lui” – replicò frastornato
l’uomo.
“E ci vivi insieme? No,
perché io lo ricordo anche al tuo processo, testimoniò, disse cose tremende”
“Erano la pura verità”
– ammise Morgan, fissandolo.
“Anch’io ne dissi, a
essere sinceri papà …” – ripeteva quel termine, colmandosene il cuore.
“E anche tu lo eri,
sincero intendo: ogni azione, ha le proprie conseguenze, Phil ed io le ho
scontate tutte, almeno lo spero” – e gli accarezzò le guance un po’ scarne.
Philip sorrise,
buttandogli le braccia al collo – “Ma ora sei qui, con me, con noi, andrà tutto
bene, vero?”
Reedus era appena
arrivato alle spalle del giovane, fermandosi sulla soglia, provando un certo
disagio, ma senza mai abbassare lo sguardo su Morgan, che lo aveva pieno di
lacrime.
“Tuo padre si è rimesso
in carreggiata, te lo assicuro”
Philip si voltò di
scatto.
Il poliziotto gli tese
la mano – “Io sono Norman, è un piacere conoscerti: JD non fa che parlare di
te” – e gli sorrise.
Il ragazzino gliela
strinse, quella mano asciutta e decisa – “Piacere … Ma tu sei il suo agente di
riferimento? Quello che si deve chiamare tutti i giorni?”
“No … No, le cose non
stanno così” – e a quel punto, Reedus, perse la sua apparente sicurezza.
“E come stanno allora?”
– Phil sorrise spaesato, tornando a guardare il padre, in piena confusione.
“E’ una storia lunga e
complicata” – provò a spiegargli Norman, non sapendo che pesci pigliare.
Sua nonna, però, gli
diceva sempre, che la verità rende liberi e che è la strada più semplice da
seguire, quando ci si sente in trappola.
Forse aveva ragione.
Forse no.
“Ci puoi lasciare da
soli un attimo, tesoro?” – chiese improvviso Morgan e Phil gli ubbidì, dandogli
un bacio sulla guancia destra, prima di tornarsene in salotto, dove Lukas stava
preparando la tavola.
La barba incolta di Jude,
gli stava facendo il solletico, da circa dieci minuti, all’altezza
dell’ombelico.
Law si era addormentato
lì, dopo una notte trascorsa a parlare con il marito, a ricordare, a ridere.
Poco più su, il segno
della cicatrice, dopo la sparatoria al cottage di White, era ancora fresco.
L’inglese aveva paura
di osare, di avere rapporti sessuali completi con Downey, come se questi, fosse
una bambola di porcellana, prossima a rompersi o a rovinarsi.
Così si prendeva cura
di Robert, procurandogli orgasmi meravigliosi, con quelle labbra ben disegnate,
quasi ogni giorno, da quando l’americano era stato dimesso.
Senza volere nulla in
cambio, affinché Robert non si stancasse.
Forse erano unicamente
i sensi di colpa, avrebbe detto qualcuno.
Qualcuno, che non li conosceva
affatto.
“Ehi sei sveglio? Le
tue lunghe ciglia, direbbero di sì” – sussurrò il moro, accarezzandogli i
capelli rasati.
“Certo Holmes”
“Bene Watson, allora
che ne diresti di fare colazione?”
Law voltò il capo, in
direzione dei suoi pozzi d’inchiostro: il busto nudo di Downey era piegato e
girato sul fianco sinistro e, al contempo, la sua espressione tenera e intensa.
Nel riverbero di quel
mattino di sole, il suo candore era magnifico, toglieva il fiato.
E le parole.
Jude arrivò alla sua
bocca, baciandola avidamente.
Con lo stesso impeto,
cercò nel cassetto del comodino, un lubrificante, notato la sera prima e
dimenticato lì da un bel pezzo.
Erano secoli, che la
coppia non soggiornava più alla End House, anche a causa del sisma.
“A amore” – balbettò il
più anziano, bloccato sotto al corpo virile e in forma del consorte, che ben
presto si sarebbe ricongiunto al suo.
Dopo settimane.
Era tutto rimasto
sospeso, tra le premure di Law e tante cose non dette, anche a proposito di
Taylor, nonostante un misero chiarimento, quando Downey era ancora in ospedale.
In quel contesto, il
pianto di Jude, aveva posto fine al confronto amaro dei due e, forse,
all’ennesima crisi.
I fianchi più massicci
di John Watson, invasero l’abisso accogliente del suo eterno amore.
“Non … Non so se ti
tradirò ancora Rob, ma sappi che” – in affanno, Jude riuscì a verbalizzare un
pensiero, per lui, ossessivo – “sappi che amerò sempre e soltanto te … Sempre!”
– gli ruggì in gola, mordendogli il mento, baciandolo febbrile, sudato,
stupendo, nella sua avvenenza ancora intatta.
Robert si sentì
mancare, per l’eccesso di endorfine, che esplosero di lì a poco in entrambi.
Era come se una
corrente calda, si fosse rimescolata alle sue acque più tranquille, senza onde.
Senza emozioni, se Law
non fosse esistito.
Se non gli avesse
scorso nel sangue, bollente e devastante.
Assoluto.
Come
il loro legame.
Le ossa sporgenti, del
bacino di Jared, così invitanti, custodite da una pelle candida e liscia, che
Colin non esitò a divorare di baci, vibrarono, in un sussulto, appena l’attore
iniziò quella tortura d’amore, lussuriosa e agognata.
Farrell si stava
prendendo tutto il tempo necessario, per donare al compagno, quel che di
meglio, li aveva uniti sin dal principio.
Il sesso non era mai
stato un problema, semmai un antidoto, un rimedio, anche uno stratagemma, a cui
ricorrere, quando tutto andava storto.
Le prime volte, c’era
esitazione oppure sfrontatezza, di certo un senso di possesso reciproco,
sapendo di appartenersi, verso un’eternità discontinua e complicata.
Eppure, rimescolati in
piena sintonia oppure alla deriva, Jared e Colin si erano puntualmente salvati,
a volte a turno, spesso in un moto reciproco, di sostegno e ostinazione.
La loro storia non
doveva finire mai e sarebbero divenuti amanti, se mai legati ad altre persone,
che, puntuali, sparivano dal loro cammino, stritolati da un amore, capace di
rinascere, dalle ceneri più roventi a quelle, ingannevolmente, più spente e
innocue.
Era un tormento, il suo
esitare, per il cantante dei Mars, il suo rimandare la collisione, il
frantumarsi, l’uno nell’altro, come se fosse ancora e sempre, la prima volta.
In quell’occasione,
Jared si convinse, per una sensazione, che mai avrebbe saputo spiegare a
nessuno, che Colin Farrell, avrebbe segnato il suo destino, sino alla fine dei
giorni.
Tra tanti amori, Colin
avrebbe, anche se lontano, fatto la differenza, a ogni ritorno, in qualsiasi
rimorso o, peggio, rimpianto.
Leto ci aveva provato,
a dimenticarlo, tradito, ingannato, persino usato da uno sprovveduto bad boy di
Dublino, come la stampa amava definirlo, un’etichetta dura da staccare, per pr
e manager, però Colin lo aveva riconquistato, ogni fottutissima volta.
Il loro villino, tra i
boschi d’Irlanda, Fuck the world, è
ciò che gli venne in mente, mentre Farrell precipitava in lui.
Era lì e non nella
residenza di Los Angeles, che il front man, voleva invecchiare insieme a Colin,
brontolando, lamentandosi, scrivendo lettere ai figli, sparsi per il pianeta, perché
loro li avrebbero lasciati andare tutti, verso i propri sogni, senza mai
interferire.
Poi
si guardarono.
E
si videro.
Sulla spiaggia
marocchina, camminare affiancati, dopo l’ennesimo litigio, la solita bevuta,
con la paura di perdersi, le dita ciondolanti, che si intrecciavano.
Erano
ancora vivi.
“Jay”
E la sua danza
forsennata, in quell’apertura stretta, si sublimò in quel semplice termine, che
per Colin era tutto.
Era
l’immenso.
Così il suo divenire,
all’unisono con Jared, che marchiò la sua schiena, con le unghie, la sua
clavicola tatuata con i denti, perché Farrell era suo.
Soltanto
suo.
Per
sempre.
“Che c’è Walt?”
Pinkman lo chiese, con
le guance gonfie di cibo, masticando un po’ ingordo, gli occhi sgranati sul più
vecchio, al capo opposto del tavolo ovale, in mezzo al loro nuovo living.
Quell’espressione, era
tipica di Jesse, mentre mangiava.
E parlava.
Parlava ininterrottamente,
ai commensali, come in una serata lontanissima, era accaduto con White e la di
lui moglie, Skyler.
Lei, mezza brilla, non
dava retta a quel ragazzino, che il marito già si scopava nel camper/laboratorio
mobile, esaltato per i lauti e insperati guadagni, provenienti dallo spaccio di
metanfetamine purissime.
Lo eccitava farselo,
tra alambicchi, provette, bidoni di reagenti e vetrini, mentre gli insegnava a
diventare un chimico esperto.
Pinkman era una frana, almeno
all’inizio, come a scuola, ma per scopare e cercare contatti tra gli
spacciatori, era perfetto.
White lo aveva sfruttato
a dovere, poi persino venduto ad una banda di trafficanti messicani, perché quel
delirio di onnipotenza, gli aveva corroso la mente, più del cancro, che quasi
gli divorò i polmoni.
La malattia si risolse,
così le sorti di Jesse, che Walt salvò, rocambolescamente, promettendogli amore
e rispetto, da quel momento in poi.
L’impegno, l’ex prof,
lo mantenne senza più ricadere in errori deleteri.
Per Jesse, quella era
la felicità.
Stop.
“Niente ti guardo” –
replicò White, la gola secca, di sicuro non per colpa dei farmaci.
Bensì, del dubbio, che
gli toglieva sonno ed energie, come la notte prima, mentre rimase a scrutare
Jesse, vegliando sul suo riposo sereno, ma solo a tratti.
Certi incubi, spesso
tornavano, facendo scattare il più giovane, tra le lenzuola madide e
stropicciate, non certo di amplessi, durante quell’ultimo periodo.
Jesse era stato
torturato e forse anche peggio, ma con Walt, non ne aveva mai voluto parlare.
Davvero mai.
“Sono bello?” – Pinkman
rise.
“Sì amore, lo sei” – e
avrebbe voluto piangere, per quanto e come lo avesse derubato, in un tempo, che
nessuno dei due si sarebbe mai buttato alle spalle con facilità.
Un ulteriore argomento
da non affrontare.
Per non rovinare la
loro nuova esistenza californiana, dopo la collaborazione con l’FBI e l’ottenimento
dell’immunità totale, per i crimini pregressi.
“Ti ho comprato un
regalo Walt” – e si precipitò a prenderlo, sotto l’albero in fibre ottiche,
piazzato davanti ad una porta finestra, dalla quale si vedeva l’oceano.
“Buon Natale Mr. White”
– e glielo porse, posando un bacio sulla sua fronte umida.
“Non stai bene Walt,
hai caldo? Abbasso il riscaldamento se vuoi”
“Smettila di!” – White
si morse le labbra, stritolando i braccioli della sedia a rotelle.
“Di fare cosa …?” –
bissò sommesso il partner.
“Di fare quello che
fai, per uno come me, che non ti merita, ecco!”
Jesse inghiottì amaro,
ma con estrema dignità affrontò la situazione – “E’ tardi per certi
atteggiamenti, noi abbiamo superato i nostri problemi, ok?”
Walt si scostò,
imbranato con quell’aggeggio, che gli serviva a spostarsi, oltre alle
stampelle.
“I nostri problemi?!?
Ma guardami, cosa ti trattiene Jesse, dopo quello che ti ho fatto passare, che
ti ho fatto subire?! Hai dei nuovi conoscenti, presto mi darai un calcio e Dio
solo sa quanto lo merito, cazzo!!”
Pinkman si inginocchiò,
davanti alle sue gambe martoriate, ma in via di guarigione.
Nulla
era perduto.
Le sue iridi
tremolarono, divenendo specchi di rugiada, cristallo e sale: era bellissimo.
“Loro … Loro hanno
abusato di me, ognuno di loro e poi mi hanno picchiato, quando ero diventato un
giocattolo rotto, che non li divertiva più … Alla fine mi hanno lasciato in
pace, perché gli servivo a produrre quella merda e dovevo essere lucido e
collaborativo … Erano rimaste le botte, quelle sì, a terrorizzarmi, a rendermi
schiavo letteralmente, legato ad una catena, anche quando mi nutrivo, di quel
poco, che mi avanzavano … E’ stato umiliante, un degrado che non saprei
descriverti altrimenti, Walt, ma in ogni istante, io pensavo a te e a quei rari
momenti, durante i quali tu mi hai voluto bene, anche se lo avresti negato, con
chiunque, soprattutto con me, ok?”
“Jesse …”
“Io ti amo Walt e ho
resistito, nella speranza di riviverli, un giorno, quei rari momenti, quegli
sprazzi di gioia: perché, per me, era così” – e si tamponò gli zigomi bagnati,
con i dorsi delle mani.
Un po’ infantile, ma di
una sconfinata tenerezza, nel donarsi a lui, senza difese, senza compromessi.
White scivolò verso il suo abbraccio generoso, per stringerlo, singhiozzando, gemendo, come una bestia ferita.
“Perdonami piccolo,
perdonami, se no impazzisco!”
“Ma io l’ho già fatto …
Walt, guardami!”
White lo fece.
Pinkman lo baciò, con
innocenza e foga.
La
stessa, con cui riuscirono a fare l’amore.
Su
quel pavimento freddo e scomodo, ma non per loro.
Reedus continuava a
sfiorarlo, a parlargli sotto voce, mentre JD puliva e tagliava insalata, scaldando
le numerose vivande, che si era procurato, per quel pranzo speciale.
“Dove hai dormito?”
“Al motel dell’angolo …
Credevo mi avessi seguito”
“Sì, da quando ti sei
fermato con la Mustang, nel piazzale qui sotto: ho accesso al database dei
residenti, è stato semplice trovare l’indirizzo di Philip”
Morgan sorrise mesto – “Era
meglio se non lo facevi Norman”
“E perché, sentiamo?” –
domandò più duro.
JD inspirò greve,
concentrandosi su pomodori e lattuga, del resto, grazie al lavoro da Jacob, era
diventato un esperto.
“Toglierò il disturbo,
non sentirai più parlare di me, però ti affido Philip: so che ne avrai cura,
come se fosse tuo, io lo so e basta, Norman” – ripetere il suo nome, gli dava
forza, in quel terribile frangente – “e so che, se ne avrai la possibilità, lo
farai curare, riuscendo dove io ho fallito, perché questo è ciò che sono, un
fallito su tutta la linea e poi la sai ancora una cosa? Probabilmente c’era il
modo, per non ridursi in quel modo, per evitare di commettere una rapina e
anche peggio!” – ringhiò, esasperato da quel vicolo cieco.
“JD io troverò il modo,
invece, di farti riabilitare!”
“E come? Con un buon
avvocato, stile Geffen?! Con il rischio di tornare a marcire in una cella? No
grazie!”
“Invece io ci riuscirò,
maledizione!”
“E per quale dannata ragione
dovresti farlo, Norman?!”
“Perché io”
“Ehi papà, ma non vedi
che l’acqua bolle?!”
Phil era tornato,
interrompendoli bruscamente.
“Sì cavoli, è vero,
scusa … Norman mi passi gli spaghetti, per favore?”
“Certo …” – annuì in
crisi di ossigeno lo sbirro.
Le chiacchiere di
Philip, i silenzi di Lukas, le occhiate tra Norman e JD, si rimescolarono,
davanti ai piatti fumanti, in un’atmosfera strana.
Poi Reedus iniziò a
parlare di moto e Lukas si accese, di interesse e parlantina sciolta.
Philip ne sembrò soddisfatto,
anche se avrebbe preferito che quell’apparente intesa, si innescasse tra il suo
ragazzo e il padre, non certo con quel tipo strano, che mai gli era sembrato un
rappresentante della legge credibile.
“Ce la guardiamo un po’
di tv, mentre Lukas e Norman sparecchiano? Il lavatoio tocca a voi, papà ha
pensato a tutto il resto, ok?” – propose simpatico l’archivista a Morgan, che
perdeva un battito, ad ogni sguardo del tenente.
Una volta sul divano,
Phil non tardò ad addormentarsi, allacciato al genitore, che lo teneva tra le
proprie ali, senza nascondere la propria commozione.
Lukas sorrise – “Succede
sempre così … E’ la digestione a fregarlo, sembra persino perdere i sensi
talvolta, certi spaventi, sai?”
“Lo immagino … JD è al
settimo cielo, in compenso”
Lukas prese un respiro –
“Credi davvero che Morgan sia cambiato? I servizi sociali hanno consigliato a
Phil di evitarlo, non è mai andato in visita da lui, in carcere, infatti: gli
assistenti gli raccontarono che il padre era diventato pericoloso, un vero
criminale, ecco” – gli confidò, una volta arrivati al lavello.
“JD non è più quello di
prima: sarà faticoso dimostrarlo, ma ci riuscirà, vedrai” – e li raggiunse,
lasciando Lukas in disparte, senza alcuna volontà di offenderlo, ovviamente.
Il giovane si sentì
comunque escluso, da quella che, non avrebbe esitato definire una nuova
famiglia.
Reedus si accomodò sul
tavolino, tra riviste e telecomandi di Play Station, dando un bacio a Morgan.
“Perché io ti amo, JD:
ecco perché lo farò.”
E
fu come una sentenza, alla quale Morgan, non si sarebbe mai più sottratto.
Mai
più.