venerdì 16 settembre 2016

NAKAMA - CAPITOLO N. 73

Capitolo n. 73 - nakama




Paul infilò i vestiti in lavatrice, velocemente, anche i sandali da monaco hippie, ancora in accappatoio, dopo una seconda doccia, durante la quale si era persino tagliato un centimetro di capelli, senza saperne neppure il perché.
Ci sentiva l’odore di JD.
Del suo maledetto tabacco.

“Cosa fai, cancelli le tracce?”

La voce di Norman lo trafisse, più di quanto non avesse fatto Morgan, in quella mezz’ora passata con lui, a fare cigolare un vecchio materasse, che se solo avesse potuto parlare …

Così avrebbe dovuto fare lui, adesso.

Reedus scoppiò a ridere – “Ti sei dimenticato i boxer” – e glieli tirò, dopo averli raccolti in bagno.

Rovia prima sbiancò, poi arrossì, alzandosi di scatto, da quella posizione genuflessa, davanti all’oblò, per trenta, interminabili, secondi.

“C’è ancora troppa polvere in giro, non si può andare in moto” – disse con un sorriso di circostanza, capendo di non essere stato scoperto.

Norman gli si avvicinò – “Ehi scricciolo … Hai presente quei film porno di quinta categoria” – e lo sollevò di botto, facendolo sedere sopra all’elettrodomestico ormai avviato – “… dove ci sono certe casalinghe disperate, l’idraulico muscoloso” – e gli leccò il giugolo, in un gesto umido e bollente.

Era di ottimo umore.

Paul, appeso al suo collo, rabbrividì, poi si riaccese, un nodo alla gola, che avrebbe ammazzato chiunque.
Scoppiò a piangere.

“Mio Dio Paul, ehi!” – Reedus gli prese il volto – “Volevo essere spiritoso, ma se ti ho offeso con le mie cazzate”

Il più giovane sorrise, tra le lacrime – “Ma che dici? Sono solo un po’ debole e … E non lo so … Forse sono anche esaurito”

“Forse non ti è passata …” – replicò lui, cupo in viso, adesso.

“No, non ci penso più, ok? E poi nessuno è perfetto” – tirò su dal naso, poi saltò giù dalla Whirpool.




Glam fece roteare Pepe, come un aeroplanino, divertendolo, solare e ristabilito, quasi completamente.

I tutori azzurri e viola, che fasciavano i suoi minuscoli arti inferiori, sarebbero stati rimossi presto.

Downey li stava spiando, immobile, dimenticandosi di respirare.

Infine entrò nella sala dei giochi, di villa Meliti, dove Antonio aveva invitato gran parte del loro clan, per una cena informale.

“Papi Rob!” – esclamò il bimbo, accogliendolo entusiasta, almeno quanto Geffen.

“Ehi tesoro, ciao, bene arrivato, sei solo?” – gli chiese dolce, dandogli un bacio sulla tempia destra, mentre gli passava la loro peste.

“Jude arriva più tardi, è al doppiaggio” – spiegò un po’ teso.

“Ci sono problemi?” – chiese piano il legale, mentre Pepe veniva sistemato su di un tappeto, con un tablet e uno snack.

“Ma no è che io sono … Un po’ paranoico, ecco”

“Su cosa?”

Il moro sospirò, guardando altrove, per un attimo.

Geffen gli sfiorò il mento – “Sfogati o esploderai” – e rise.

Si accomodarono su di un divano – “Ha sempre sette anni meno di me, giusto?” – esordì quasi buffo, come solo lui sapeva essere.

“Sette anni meravigliosi, che, per quanto voglia bene a Jude, lui non eguaglierà mai” – rivelò limpido.

“Tu sei di parte …” – e arrossì.

“Affatto, su vai avanti: qualcuno gli fa la corte?”

“Oh ma sì, la sua collega, la sarta, Judsie piace un sacco alle … come si chiamano?”

“Ehm, vediamo … Hanno due gambe, due cose qui, che piacciono a Lula” – Glam rise più sonoramente.

“Anche a te, se è per questo!”

“Oh Robert, ma per favore … Dio, sei adorabile”

“No, tu lo sei … Anche prima, mentre sbirciavo dietro la tenda, con Peter … Insomma” – e prese fiato, tamburellando, con i palmi aperti, sui jeans modaioli.

“Jude non commetterà più certi errori e tu lo sai, ok?” – proseguì l’ex, con tenerezza.

“So che ne sono geloso marcio … Pensavo di farmi un po’ di botox qui!” – ed indicò gli zigomi.

“Ma sei matto?! Guai a te!”

“Non rientravano nelle clausole del nostro divorzio Glam, le cure estetiche?”

“Se vuoi ti pago un viaggio a Lourdes, visto che sei in vena di farneticazioni” – bissò con un ghigno, poco raccomandabile.

Downey rise, finalmente rilassato.

Geffen lo avvolse – “Ti amo …” – gli mormorò tra le ciocche brizzolate, a occhi chiusi.

L’attore deglutì a vuoto, scrutandolo poi, con quelle iridi immense e fluide, di inchiostro e luce.

“Ti amerò per sempre anch’io, Glam …” – disse in un soffio.

Erano rimaste le parole, tra loro, i battiti del cuore, le carezze e il loro bambino, che li raggiunse gattonando – “I miei super papà!”

“Ehi campione” – Geffen li riaccolse entrambi, nel suo abbraccio caldo, commosso e vibrante di gioia.

Downey non aggiunse altro, se non un bacio, sulle guance di quei tesori, che nessuno gli avrebbe mai portato via.




Taylor gli avvolse il busto da dietro, baciandogli la nuca nuda, così la stempiatura alta, dopo averlo raggiunto sul bordo del letto.

Jude sentì una fitta allo sterno e quel corpo, altrettanto nudo, di Kitsch, adesso, lo stava infastidendo.

A differenza di un’ora prima, quando perdersi, tra le gambe palestrate del collega ed ex compagno, era stato così semplice.

Gli impegni da set, erano oltre modo efficaci, nel dare loro il tempo necessario, per l’ennesima, stupida, follia.

“Devo andare …” – disse roco l’inglese.
Aveva ricominciato a fumare, dopo secoli, all’insaputa di Robert, che non doveva venire a conoscenza neppure di quanto fosse bastardo e irragionevole.

Taylor era come un discorso sospeso, per Jude, ma l’amore di Kitsch, all’epoca, era stato puro.

Ora, con Geffen jr, tutto andava a meraviglia, volevano persino sposarsi.

Law, però, gli era rimasto nel cuore, insieme ad un desiderio di rivalsa, inutile, puerile.

Tra le lenzuola disfatte e imbrattate dal loro passaggio, Law tornò a stendersi – “Mi manca l’aria”

“Cos’hai?” – chiese spaventato l’altro, prendendogli subito dell’acqua.

“E’ il senso di colpa, è questa cosa, che deve finire subito, ok?” – sbottò, trangugiandola, per poi tossire, come un animale ferito.

Taylor abbassò lo sguardo – “Siamo stati bene … invece”

Jude gli si riavvicinò, turbato – “Scusami … Sì, è vero, ma abbiamo sbagliato e siamo impegnati, io sono sposato, cazzo!”

Kitsch annuì, poi prese i jeans, lasciati sulla moquette avorio.

“Forse non siamo poi così felici …” – aggiunse, rivestendosi.

“Io lo sono con Robert, io lo amo e non mi capisco, quando faccio CERTE STRONZATE!” – sbraitò, incurante che qualcuno potesse sentirlo.

“Potresti almeno non rovinare tutto, come sempre?! Non è il caso di farmi CERTE SCENATE!” – si alterò anche Taylor.

Law saltò giù dal materasso, cercando, frenetico, le scarpe e il resto degli indumenti – “Dobbiamo andare dal nonno, c’è la cena, te ne sei dimenticato?”

“Bello cambiare discorso, quando ti fa comodo!”

“Taylor non era mia intenzione litigare, ok?” – si calmò, ossigenandosi, andando infine a stringerlo a sè.

Rimasero zitti, ad ascoltarsi le pulsazioni.
Poi si baciarono.
Volevano solo che accadesse.

Forse per un’ultima volta.





Paul sembrò infagottato, in quel pigiama, comprato chissà dove.
Aveva la febbre.

Norman gli preparò una minestra, mettendo il piatto su di un vassoio, accanto alla sua birra ed un sandwich, pieno zeppo di schifezze.

I fanali tinta cielo di Rovia, si posarono su entrambi, mentre si rannicchiava contro i cuscini, sistematigli alle spalle da Reedus, premuroso e in silenzio, da quando si era messo ai fornelli.

La loro casa sulla spiaggia, quasi completamente in legno, aveva resistito alle scosse, per fortuna.

Rimanere a Palm Springs risultò scomodo, per riavviare l’officina efficacemente.
Il lavoro si stava riprendendo, anche se i soldi erano l’ultimo dei loro pensieri.

Quelli di Paul, tetri e angoscianti.
Il suo malessere, aveva giustificato a pieno il non potere fare l’amore con Norman, come lui desiderava.

Ora, l’ex poliziotto, sembrava un genitore in ansia, più che un amante focoso.

“Ho fatto del mio meglio, Paul” – e abbozzò un sorriso timido, su quel volto particolare e bellissimo.

“Lo fai sempre e non te ne sarò mai abbastanza grato, sai?” – replicò mogio, rimestando la sua brodaglia verdognola.

“Ma che discorsi fai?” – rise complice – “Noi siamo una squadra, no? Ci sosteniamo a vicenda, come tutte le persone che si amano”

“E io ti amo, Norman” – puntualizzò, fissandolo di botto.

Reedus arrise a quelle sue reazioni spontanee – “Lo so … Anch’io ti amo, devi credermi”

“A volte pensi che io non lo faccia?” – domandò assorto.

“No Paul … Certo che no” – e si scolò la Guinness, senza percepirne il sapore.

Era una sorta di battaglia, anzi, di partita a scacchi: era complicato prevedere le mosse di Rovia e Norman non si era mai sentito così a disagio.




Jude porse una rosa rossa a Robert, appena questi si distaccò da lui, dopo avergli dato il benvenuto alla residenza di Antonio.

Erano in fondo al parco, dove gli invitati lasciavano le loro auto, sotto ad un porticato di mattoni e legno massiccio, deserto all’arrivo di Law.

Downey aveva fatto una passeggiata sino a lì, dopo essersi congedato momentaneamente da Glam e Pepe, impaziente di incontrare il coniuge.

L’amore di una vita.


“E’ stupenda, non dovevi Judsie …” – e si emozionò, smarrendosi, poi, nei suoi opali di ghiaccio, scheggiati d’oro, dal riverbero del tramonto.

“Invece sì e tu non sai quanto” – disse perdendo un battito, per poi baciarlo, intenso.

Robert gli scivolò nell’incavo della spalla, come a nascondersi, più che a trovare un rifugio sicuro.

“Piccolo, tutto bene?” – domandò Jude.

Sette anni di meno e continuava a considerarlo in quel modo, come un frutto ancora acerbo.

Quando, al contrario, l’americano si sentiva vecchio e stanco, specialmente di percepire certe sensazioni.

“E’ tutto a posto caro, io ho avuto una giornata un po’ lunga, con Susan e i ragazzi” – si giustificò banalmente.

Law sorrise – “Se posso aiutarti …”

“No e per cosa?” – anche Downey ricambiò quel sorriso.

“Perdonami” – e si morse le labbra, non sapendo più dove mettere le mani – “… a volte mi credo di essere Glam e …”

“Che sciocchezza!” – lo interruppe brusco il più anziano, poi provò a risolvere con noncuranza – “Sono finiti i tempi dell’antagonismo, delle ripicche, ok?”

“Ovvio che sì … Io, comunque, stavo scherzando Rob”

“A me non sembrava … Andiamo? Siamo perennemente in ritardo, dai” – e lo prese per quelle mani, che ora avevano trovato una giusta collocazione.


Forse.












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