Capitolo n. 96 – nakama
Come pugili, su di un
ring immaginario, adesso stavano, ad angoli opposti, Glam e Scott, contro
Norman e JD, all’interno della saletta di attesa, del primario Foster, in
persona.
Gli addetti alla
sicurezza, lo avevano informato, circa la rissa intercorsa tra Geffen, Reedus e
Morgan, sedata a fatica non solo da Vas, ma anche dal diagnosta, amico storico
dell’avvocato più famoso di Los Angeles.
Un neo senatore, per
giunta, ma Glam sembrava essersene dimenticato, mentre i reporter, delle
principali testate cittadine, lo stavano come braccando, per avere conferma
della sua nomina, da parte di Michelle Obama.
“Bene, potete
accomodarvi: vi siete calmati, era ora!” – sentenziò il proprietario della
clinica, facendoli passare nel suo studio privato.
“Vorrei andare da mio
figlio, se permette” – esordì cauto JD.
Foster lo squadrò,
severo – “Lei è un pregiudicato, da quanto ne so, dovrebbe essere in manette e
lei” – si rivolse a Reedus – “… Lei ha in custodia il signor Morgan, giusto?”
Geffen si morse le
labbra, ma non proferì parola.
“Infatti e sono
dispiaciuto per questo equivoco, mi creda” – provò a giustificarsi il tenente,
a sguardo basso.
Si sentiva come un topo
in trappola.
Avrebbe voluto
telefonare a Chris, ma Hemsworth lo avrebbe sbranato, una volta saputa la
verità su lui e JD, alquanto mortificato e ansioso di riabbracciare Philip.
“Comunque, suo figlio è
in osservazione, tutto procede nel migliore dei modi, ma non si sveglierà prima
di quarantott’ore, come minimo” – spiegò più calmo Foster, sedendosi in
poltrona.
“Io vado da Paul” –
Scott scattò in piedi – “Penso tu non abbia nulla in contrario, John”
Foster annuì –
“D’accordo, è al terzo piano, camera 304”
“Ti ringrazio” – e si
dileguò.
Glam prese un lungo
respiro, controllando il palmare – “Se non vi dispiace, andrei anch’io: sono il
suo tutore legale”
Foster fece una smorfia
indecifrabile - “Ed io ho una cena di gala, con il sindaco: quindi, Reedus,
come pensa di procedere?”
“In che senso?” –
chiese frastornato.
“Nel senso che non può
girovagare per la struttura, senza agenti di rinforzo: vuole chiamare il suo
comando? In caso contrario, dovrà ricondurre in carcere il signor Morgan e
chiedere dei permessi speciali, dovrebbe saperlo” – sibilò irritato e stanco.
Norman annuì – “E’
ovvio: il detenuto è una mia responsabilità e lo riporterò al distretto
immediatamente; buonasera a tutti” – e, strattonando JD, dopo avergli bloccato
i polsi rapidamente, entrambi uscirono in corridoio, con il cuore in gola.
Paul voleva unicamente
essere lasciato in pace.
Peccato non riuscisse a
comunicarlo a nessuno, per quanto si sentiva intontito, dopo la lavanda
gastrica.
Deglutiva a fatica,
così che Scott gli passò dell’acqua, in modo affettuoso, quanto il suo tono –
“Bevi piano … Ci hai fatto prendere un tale spavento, sai?” – e strizzò le
palpebre, su quegli spicchi di cielo, così luminosi, nonostante la penombra, in
cui la stanza era immersa.
“Vi importa davvero di
me?” – domandò flebile.
“Certo tesoro” – “Zio
Glam …”
Il sorriso di Geffen,
incontrò il suo sguardo triste.
L’uomo prese posto, al
suo capezzale, accanto a Scott.
“Nessuno, Paul, merita
il tuo gesto, sai?” – disse con dolcezza, sistemandogli il lenzuolo sul petto
glabro – “Hai freddo?”
“Un po’ …”
“Scott ti prende una
casacca, ok?”
L’amico annuì, andando
a cercarne una, nell’armadietto, sotto alle finestre.
Rovia si girò del tutto
sul fianco destro, come per guardarlo meglio.
Glam scosse il capo
rasato, ossigenandosi, per trovare la forza di dirgli la verità, una volta per
tutte, così da convincerlo a dimenticare Norman e, forse, persino JD.
Scott tossì, come per
troncare il discorso sul nascere, dopo avere intercettato le sue intenzioni e
Geffen tacque.
“Perché non andate a
festeggiare, zio?”
“Perché non ne abbiamo
alcuna voglia, piccolo” – Glam sospirò, pensando che il loro clan si era
riunito a villa Meliti, senza programmi precisi, dopo un rapido scambio di sms,
per brindare insieme, prima dell’alba.
“Io resto qui” –
puntualizzò Scott, riaccomodandosi, dopo avere aiutato Rovia a vestirsi.
Un lieve bussare,
distolse i loro sguardi dal ragazzo, direzionandoli verso la soglia, dove
Morgan, a sorpresa, si palesò, con alle spalle Reedus, incapace di farlo
desistere, da quell’idea balorda, di andare proprio lì, da Paul.
Paul che sorrise,
spontaneamente, perché quello gli stava dicendo il suo cuore.
Nulla
di più.
Nulla
di meno.
“Ciao, posso parlarti
solo per un minuto?” – domandò JD, timido e assorto sul giovane.
Aveva troppi ricordi e
nessuno veramente bello.
E solo perché era stato
lui, a sporcarlo.
Paul acconsentì,
rannicchiandosi, senza guardare oltre Morgan, ignorando quasi la presenza di
Reedus, che si spostò in corridoio, accerchiato da Scott e Glam, ostili, nel
loro ostentato silenzio.
“Sei in arresto?” –
chiese tossendo, accorgendosi delle manette.
“Sì, torno dove dovevo
restare” – ammise JD, sedendosi lento.
“Non capisco come mai
tu sia qui …”
Morgan sorrise – “E’
per Philip, mio figlio, è stato operato … E’ una lunga storia, ma tutti i miei
guai, sono partiti dalla sua situazione di salute precaria, anzi disperata, un
cuore malato ecco”
“Non mi hai mai detto
nulla su di lui”
“Forse non volevo
apparirti debole oppure giustificarmi inutilmente, del resto non lo sapeva
nessuno in galera, ero considerato un duro, ricordi?”
“Come potrei
dimenticarlo … Philip sta meglio?”
Morgan arrise al suo
interesse sincero – “Tu sei incredibile Paul e io ti ho fatto solo del male …
Ero come impazzito, ero diventato un autentico mostro, ma vedi, sembra che
anche ora, voglia trovare delle scuse e”
“Succede spesso,
anch’io l’ho fatto, dando la colpa a mio padre, ai suoi abusi” – riconobbe
lucido – “ma potevo prendere strade diverse dalla droga: sono stato un idiota”
– e quasi rise, più rilassato.
“Anche oggi hai fatto
una sciocchezza a quanto pare”
Rovia fece un cenno di
assenso, mordendosi le labbra ben disegnate.
“Mi sento in colpa,
Paul, anche per questo, sai?”
“Mi hai mai voluto un
po’ di bene?” – chiese diretto, guardandolo intenso.
“Io …”
“L’hai voluto a Norman,
vero? Gliene vuoi sul serio, lo capirebbe anche un cieco, così lui” – affermò
calmo.
“Paul”
“Un attimo fa, prima di
lasciarti solo, Norman ti ha dato una carezza, in mezzo alle scapole e c’era
così tanto amore, in quel gesto”
“Siamo stati due folli”
Rovia sorrise – “Gli
innamorati lo sono”
“Io ti voglio bene,
Paul, adesso io te ne voglio, riesci a credermi?”
Stella prese due bicchieri
di punch caldo, avvicinandosi poi a Jared, per porgergliene uno.
“Grazie” – Leto sorrise
– “Dove sono gli altri?”
“Un po’ ovunque” –
anche lei rise solare – “… c’è una tale confusione per casa oggi” – e si
accomodò al suo fianco, sul Chester verde bosco, nella biblioteca di Meliti.
“Stella, ascolta,
volevo parlarti del progetto” – Jared si morse le labbra – “… sì insomma”
“Sarebbe bello, se tu
lo definissi nostro, ma temo che
l’idea sia stata unicamente di Colin, vero?” – replicò con serenità.
Il cantante annuì.
“Dare una sorellina a
Isy e Syria, cioè a tutti i nostri figli”
“Oppure un fratellino”
– lo interruppe allegra.
Leto inspirò – “Già,
infatti … A proposito, anche Glam ne è entusiasta” – rivelò, lasciando intatta
la sua bevanda fumante.
“I tuoi uomini, in
sostanza” – concluse lei, guardandosi in giro – “… i tuoi amori, a dire il
vero, Jared” – e tornò a fissarlo.
Leto non aveva mai
smesso: Stella era bella, in forma, perfetta per la maternità surrogata.
“L’anno prossimo
prenderò la mia decisione”
Risero.
“Cioè domani, Jared?”
“Pressappoco … Sì, è
giusto che anche tu conosca le mie intenzioni, una volta per tutte; salute!”
Hemsworth lo stava
chiamando da circa venti minuti.
Alla fine, salendo in
auto, con al proprio fianco JD, Reedus rispose.
“Sì pronto!” – sbottò
esausto.
“Norman ciao, sono io”
– la voce del suo socio suonò perplessa.
“Scusami Chris, ora non
ho tempo”
“Tempo per cosa?” – il
biondo rise – “Volevo solo invitarti a cena da noi, per festeggiare o sei in
servizio?”
“Sì lo sono” – confermò
più calmo.
“Ok … Hai una voce
strana, tutto a posto?”
“E’ stata una
giornataccia” – e guardò Morgan, che non sembrava neppure più respirare, per la
tensione.
Dagli ascensori uscì
Geffen, che puntò dritto verso di loro.
“E non è ancora finita,
temo.”
Scott, alla fine,
dovette cedere.
Rovia gli aveva chiesto
di cercare Pinkman e di avvisarlo, in qualche modo.
Un sms sembrò la
soluzione migliore.
Jesse non sapeva quale
scusa trovare, per uscire; la cena era pronta, il catering del Dark Blue
l’aveva appena consegnata e White si era persino messo in giacca e cravatta,
per l’occasione.
Camminava incerto, con
le stampelle, ma era davvero migliorato.
“Tesoro vieni? Se no si
raffredda!” – lo reclamò il più anziano, armeggiando con una bottiglia di
champagne.
Pinkman rispose veloce,
facendo scorrere le dita affusolate e minute, sulla tastiera del suo tablet – “… dopo mezzanotte o domattina, non so come
fare adesso: salutami Paul, digli che sarò da lui prima possibile; mi dispiace,
davvero … JP”
“Eccomi! Uh quanta roba
Walt … Lascia fare a me, dai”
“No, me la cavo” –
brontolò – “… Un brindisi, Jesse?”
“Certo” – e lo
assecondò, affiancandolo, più per sostenerlo, che per alzare i calici, in vista
dell’imminente capodanno.
“A noi” – White inspirò,
turbato.
“A noi Walter” – e ne
bevve un sorso breve, interrotto dal bacio, improvviso, dell’altro.
Si distaccarono
guardandosi.
“Sono così disperato
Jessy” – ammise l’uomo, gli occhi lucidi e fissi su di lui.
“Ma va tutto bene, ok?”
– Pinkman tremò, senza andarsene via da lui.
“Scopi con qualcuno?” –
chiese secco.
“No, ma che ti
inventi!?” – ora c’era almeno un metro, tra loro, in realtà un abisso.
Di bugie.
White sorrise mesto – “Arrossisci
ancora, quando menti, incredibile, sai?” – e c’era tenerezza, in quell’amara
constatazione.
“Ma cosa pretendi da
me?! Qualunque cosa io dica, tu non mi credi?!”
“Infatti: io non ti
credo” – replicò, stranamente più calmo.
“Fai come ti pare Walt …”
– sbuffò, in imbarazzo.
“Lo farò Jesse.” –
ancora un respiro – “Domani vado a New York, da Skiler, dai nostri figli”
Quel nostri, lo lacerava ancora così tanto,
ma non quanto apprendere quell’inaudita novità.
“Cosa?!”
White deglutì a vuoto,
reggendo i suoi opali vividi di rancore.
“Forse non vorrà
vedermi, non importa, ma ho bisogno di stare con loro, con Junior specialmente
e poi con la bimba è ovvio” – sembrò puntualizzare, come se fosse normale tutto
ciò.
Invece non lo era e
Pinkman glielo avrebbe voluto urlare in faccia.
Peccato
che non gli uscì neppure una parola.
Reedus sgommò via,
prima che Geffen si avvicinasse abbastanza per impedirglielo, chissà in quale
maniera, si domandò mentalmente il poliziotto.
Un colpo di clacson,
distolse l’attenzione di Glam da quella prospettiva, spostandola verso l’arrivo
di un’auto, che gli lampeggiò.
Era Downey.
“Robert” – e gli
sorrise.
“Ho ricevuto il tuo
messaggio, sono in ritardo?”
“No, anzi” – e salì.
“Quello chi era?
Sembrava avere una fretta del diavolo”
“Era Norman, con JD, il
padre di Philip”
“Ah … Come sta?”
“E’ stabile; ce ne
andiamo Rob?”
“Ho già accompagnato
Jude e le bimbe dal nonno, ci stanno aspettando, c’è anche Jared”
“Ok” – Geffen stava
guardando il traffico.
“L’ho visto parlare con
Stella, mentre uscivo”
Glam non disse niente.
Fino
a destinazione.
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