One
shot – Le vite sbagliate
I can’t
Pov Robert Downey Jr.
Ridacchio armeggiando
con il badge, Norman ride alle mie spalle, ci posa sopra le mani calde – “E
muoviti, ma sei brillo?” – chiede divertito, ma siamo entrambi sobri.
L’ennesimo premio, il
party, abbiamo fatto gli scemi per l’intera serata, ora non resta che chiuderci
nella suite, riservata dalla mia produzione, faraonica constatiamo appena
varcata la porta, chiusa con un colpo di tacco dal mio amico.
Sì. Norman Reedus e io,
siamo amici da anni.
Ci penso, sorrido.
Lui mi fissa – “Che c’è?”
– mormora dolce, sfilandosi la giacca elegante, lui, sempre conciato da bullo
HD, come adoro canzonarlo.
Lo sto guardando
troppo, me ne rendo conto, così come mi rendo conto di adorarlo.
“Sei bello, ecco che c’è”
– rispondo sincero e lui brontola qualcosa, avviandosi al mobile bar.
“Hai ancora sete?” –
chiedo curioso delle sue mosse.
“No, ho fame, voglia di
noccioline”
“Sei incinto come
Diane?”
La
tua Diane, vorrei rimarcare, però evito.
Mai capita la loro
storia, profilo basso, come con Susan.
La
mia Susan?
Ok, lasciamo perdere,
non voglio rimuginare sul nostro matrimonio, sui rumors puntuali, “hanno litigato, si separano, pronti al divorzio”.
Cazzate.
Sì.
Cazzate, ok.
Ok.
“A che pensi, Rob?” – e
intanto si scola una tonica, lui, che non aveva sete ed io, mi divoro le noccioline.
“Sembri una scimmietta”
– e ride giocoso, slacciandomi la camicia.
“Ehi aspetta” –
protesto flebile.
Norman si ferma, però
mi bacia.
Un bacio profondo.
Tiene il mio viso tra i
palmi, ora bollenti, come il suo fiato.
A me piace soccombere,
lui lo sostiene da un pezzo.
Avrà anche ragione.
Tremo e lui mi sente.
Lo fa sempre.
“Che succede?” – è calmo,
non invade mai, non pretende nulla.
Anche due anni prima, l’unica
volta, che è capitato, in auto, come due ragazzini, l’abitacolo sportivo, poco
spazio, lui sotto, io tra le sue gambe magre, perché il suo peso è una
variabile costante, avevamo riso sull’argomento, ogni tanto gli lievitava l’addome,
troppe birre?
Poi di nuovo esile,
tonico, pigro nell’allenarsi, ma graziato da madre natura, generosa anche nel
donargli un volto bellissimo, magnetico.
Unico.
“Succede che … Non
saprei Norman” – e mi stacco, vado a sedermi sul divano, mi tormento la fede, la
tolgo dall’anulare – “Ho le dita gonfie, mi dà noia” – mi giustifico, la metto
in tasca.
Norman sorride, si accomoda,
mi accarezza il fianco sinistro con la sua parte destra, mi avvolge.
“Come vanno le cose con”
“Non adesso, non mi va
proprio di parlare di Jude” – replico assorto, puntando la tv spenta.
“E poi ci siamo
lasciati un anno fa”
“E’ un anno che
rimandate il film”
“Non per colpa mia
Norman” – preciso, come se ce ne fosse bisogno.
“Ok”
Si alza.
“Dove vai?” – spero non
via, ho bisogno di stare con lui, posso anche dirglielo e lo faccio.
La nostra complicità
nasce da qualche parte, che nessuno dei due ha voglia di spiegare all’altro.
Meglio così.
Torna da me, si inginocchia,
afferra le mie gambe, le schiude – “Ecco la porta del paradiso” – scherza, mi
bacia di nuovo.
Mi appendo a lui, lo
bacio forte, lo voglio dentro di me, ma non è scopare, lo sappiamo e non lo
diciamo.
Parliamo spesso, ma le
confidenze sono una cosa, mentre le verità, suonerebbero meno rassicuranti.
Il suo cellulare vibra.
“Accidenti” – bofonchia
infastidito.
È buffo.
“Dovevo spegnerlo e”
“Rispondi, magari è importante”
– lo esorto, ma farei meglio a tacere.
Norman controlla il visore
e poi risponde.
La voce calda di
Jeffrey Dean Morgan è talmente intensa, che arriva persino a me, a tre metri di
distanza.
Norman si è appiccicato
allo stipite dell’ingresso, ma il suo tono è nitido.
“No tutto bene, la
cerimonia è stata un po’ lunga, la festa una noia, sono già a nanna … Sì, volevo
farlo, ma credevo dormissi … Ok, lo so che posso chiamarti a qualsiasi ora” –
sorride spento e si accovaccia, cercando ossigeno e mi guarda.
Vorrei chiamare Jude.
Ci stiamo guardando
come due coglioni, penso.
“JD domani torno e ne
parliamo, ok? … Certo che il Natale lo passiamo insieme, ma non so i parenti di
Diane cosa faranno e … Ok, c’è un sacco di spazio anche da me e … Cosa?” –
ride, Morgan ci sa fare, lo rivolta come un guanto, lo fa sempre, a Norman
piace.
“Un giro il 27? E dove
andiamo? Molliamo tutti e … Va bene” – inspira, si rialza – “… Anch’io …” – si morde
le labbra – “Nessun problema a dirtelo … Ti amo JD” – sembra strappargliele
queste ultime parole, lagnandosi come un bimbo, perché, lui, Jeffrey Dean
Morgan, penso gliele abbia ripetute circa otto volte, prima di salutarlo
definitivamente.
Ha riattaccato.
Verso da bere.
Un succo tropicale,
guai a sbronzarci.
Ed ho una dannata voglia
di farlo.
E non posso.
E vorrei farmi.
E non posso.
E vorrei vivere.
E non posso.
Cazzo,
io non posso.
“L’ultima volta, con Jude,
ci siamo picchiati”
Lo dico e basta, ma
perché lo dico a Norman?
“Mi dispiace” – il suo
tono è roco, mi sfiora i fianchi, da dietro, mi rassicura con naturalezza, nel
suo abbraccio, mi bacia la nuca.
“E’ … è per questo che
l’ho lasciato, perché ridursi in quel modo, significava che era finita, no?”
Norman resta in
silenzio.
“JD ti ha mai picchiato?”
– e sento le lacrime incendiarmi gli occhi e la gola.
Vorrei urlare.
E
non posso.
“No. Lui mi vuole bene.
Bene sul serio ed è per questo che”
Anche Norman non riesce
ad andare avanti.
Mi giro.
Lo stringo con l’ultima
energia rimasta; siamo svuotati, lo percepisco.
È ciò che resta.
Le nostre vite sbagliate.
Le nostre scelte.
Finire a letto con i
colleghi di set, con qualche assistente, decisioni senza alcun senso.
O forse, l’unico senso,
era quello di vuoto, da colmare.
Senza sosta.
Senza soluzione alcuna.
Due anni prima, guardando
il tettuccio dell’auto sportiva, dopo,
le rispettive rivelazioni, sembravano una confessione allo specchio.
“Con
JD ci conoscevamo già … Che ne so, forse lavorando insieme, non riesco a
spiegartelo Rob, ci siano innamorati come tredicenni alla prima cotta, sempre a
cercarci, a toccarci, a baciarci negli angoli bui, persi in un amore assurdo” –
si apriva, buttando fuori il fumo della sua Camel, la pelle imperlata dal sudore
del nostro amplesso.
Una
visione, lo ammetto.
“Anche
il mio, per Jude, è un amore assurdo”
“Ma
io non ho mai chiesto niente a JD e lui neppure, cioè, tipo convivere, avere
dei bambini” – rideva senza allegria – “… ma poi la casa nuova, io, l’ho
comprata vicino al suo ranch, quindi qualcosa la volevo”
“Jude
ed io, la casa, l’abbiamo presa a Londra, sei anni fa … Non è servita a molto.”
Norman fa delle pause,
toccando la mia erezione, mentre mi bacia e si muove dentro di me.
Anche tutto questo è
assurdo.
Ed è così bello.
Consolante.
È impossibile smettere
di guardarci.
Sappiamo cosa stiamo
facendo.
Lo abbiamo desiderato, appena
ci siamo accorti l’uno dell’altro, a quella interminabile
cerimonia e poi durante la festa
noiosa.
Veniamo insieme.
Le sue dita, tra i miei
capelli, le mie, tra i suoi, precipitati in un bacio, fatto di lacrime, ma
necessario a custodire qualsiasi rischiosa espressione sentimentale.
Mi gira, ricomincia.
Potrei perdere anche i
sensi, per come spinge; è rabbia, la sua?
Identica alla mia,
perché negarlo?
Rallenta, smette, si
separa da me, sembra volare via, mentre mi accascio sulle lenzuola macchiate di
noi.
Mi riprende a sé, torna
a scrutarmi, inginocchiati entrambi al centro del letto disfatto, come i nostri
respiri.
“Ti voglio bene Norman”
Lui, è di questo, che
ha bisogno.
Faticherà a dirmelo, lo
so, lo eviterà a dovere e non ci sono problemi; non ce ne saranno mai.
Tra di noi.
Mi bacia.
Mi
bacia ancora.
The
end