mercoledì 16 febbraio 2011

Capitolo n. 68 – gold



Guy era un regista a tutto tondo, un autore, uno sceneggiatore, un amico, un consigliere, ma aveva quel vizio, anche divertente, ti coinvolgerti a qualsiasi ora, dall’alba a tarda notte, organizzando riunioni e cene, dove discutere su come rendere unico il film a cui stava lavorando.
La crew di Sherlock Holmes era stipata da due ore in un pub, al centro di Londra, in una serata fredda e nebbiosa, tipica per quella stagione autunnale.
Robert era arrivato insieme a Guy e Jude, ma, mentre l’ex marito di Madonna era sereno, l’amico Law aveva un muso lungo, inconsueto per il suo carattere solare.
Downey sparava cazzate a raffica, era felice, senza saperne nemmeno bene la ragione, ma quel periodo era stupendo per lui, ripulito da droghe e sbornie distruttive, aveva una bella casa, molti soldi grazie ai successi di Iron man e, dopo quel film sull’investigatore piú famoso al mondo, era certo che le cose sarebbero andate anche meglio.
La sua gamba destra continuava a strusciarsi contro quella di Jude, che, incurante dei presenti, era immerso in riflessioni, che non voleva condividere con nessuno, nemmeno con Robert, con il quale si confidava su tutto.
“Cos’hai piccolo…?”
Lui sobbalzó alla voce calda di Robert, che lo stava fissando, con quegli occhi fatti di inchiostro liquido, poi un sorriso complice – “Nulla… nulla… ho mal di testa…” – rispose mesto, alzandosi – “Vado a prendere un po’ d’aria Rob… scusami.”
Salí sul tetto, conosceva bene quel posto, ci andava sempre quando studiava.
Si alzó il bavero della giacca, sotto aveva solo una t-shirt, Robert lo rimproverava sempre “Prenderai un accidente prima o poi… cosa avete in quella zucca voi inglesi ahahah?!”
Era un uomo dolce, incontrarlo era stata un’autentica fortuna, Jude ci stava rimuginando da tempo.
“Scegli una stella, cosí la strappo dal cielo e te la regalo, per i tuoi pensieri…”
“Rob…? Mi hai seguito…?” – sorrise imbarazzato.
“Se sono di troppo sparisco in un nano secondo!” – rise, con le mani in tasca, rattrappito in un giubbotto troppo leggero.
“No, anzi…sono una pessima compagnia stasera.”
“Giornata storta Jude?” – chiese avvicinandosi.
“No…no. È stata uno sballo quella sequenza al porto e… ma chi voglio prendere in giro, sto… di merda.”
“Ullallá! Che modi ahahahah Jude! Sputa il rospo!”
I suoi occhi chiari brillavano nel riverbero della luna piena, Jude era bellissimo, ribelle ed indecifrabile, ma non per Downey, che con misura sapeva approcciarsi a lui, senza mai offenderlo o turbare i suoi sentimenti.
Gli accarezzó il volto teso, poi con entrambi le mani scivoló a cingergli il collo e la nuca, in una carezza tenera e sensuale attirandolo piano, per dargli un lungo bacio.
Jude sciolse le braccia dapprima incrociate, accogliendo il corpo di Robert, che assaporava la sua lingua, con calma, con vero amore.
Quando quel breve e meraviglioso viaggio finí, dal cuore di Jude emerse una semplice veritá: “Rob io ti amo…” – “Ti amo anch’io, dal tuo primo respiro Jude…”
C’era una stanza, al di lá del lucernaio alle loro spalle, solo una porta sottile, li separava da un letto comodo, un posto pulito dove Jude portava qualche ragazza, era ancora lí, come la chiave nascosta nella seconda tegola da sinistra, le candele, che accese con i cerini lasciati nel cassetto da qualche amico, che ancora ci andava.
Robert lo seguí, senza chiedergli nulla.
Si spogliarono, riprendendo a baciarsi, coccolandosi, per poi lasciarsi andare ad un erotismo, che ormai chiedeva spazio e voce.
Robert fece stendere delicatamente Jude sotto di sé, insinuandosi tra le sue gambe, ammirando ogni centimetro della sua pelle, che da lí ad un attimo avrebbe baciato.
I suoi muscoli erano eccitanti, in quella magrezza perfetta per la sua altezza, aveva sette anni in meno rispetto a lui, che era sempre in forma, spaventosamente virile agli occhi di Jude, che inizió ad ansimare, nel sentirsi succhiare i capezzoli, poi il collo, poi di nuovo giú, verso il centro del suo sembiante, per finire sul suo sesso, che Robert prese a massaggiare, a leccare, ad ingoiare.
Jude cercó un appiglio tra le lenzuola – “Dio… Dio mio Rob…!” – gemeva suadente, afferrando i capelli di Downey e modulando il suo ritmo, nel portarlo ad un orgasmo incredibile.
Risalí a sfiorargli gli zigomi, la fronte, sulla quale appoggió la propria, ugualmente madida di sudore.
Jude sentí la sua erezione e poi le sue dita, pronte a prepararlo.
Robert deglutí, immergendosi nella sua spalla e poi riemergendone – “Jude se non vuoi io…”
“Non… non l’ho mai fatto… ma so soltanto che è con te che deve succedere… per sempre.” – si appese al suo collo, baciandolo e pregandolo di non farlo aspettare oltre – “Prendimi… prendimi Rob, voglio sentirti, voglio essere tuo…” – le sue parole si fondevano agli spasmi, dovuti alla penetrazione esperta del compagno, che lo dilató, per poi avvicinare la punta del proprio membro a quella fessura meravigliosa e grondante di umori – “Cazzo Jude…mi farai impazzire… moriró di te…”
Lo prese, non poteva davvero resistere, anche se fu attento, ma alla fine i suoi colpi divennero generosi e continui.
Posizionó al meglio le gambe di Jude, intorno al proprio bacino, con un braccio avvolgeva la sua schiena, con l’altro attirava il suo gluteo perfetto, inclinandosi quel poco che bastava per toccarlo nel punto sensibile dentro di lui, facendolo urlare nell’incavo sotto al suo mento, dove piangeva e godeva – “Rob… sei la mia vita… la mia… vita.”

Erano passati otto anni e quell’uomo fantastico era seduto su di una panchina, sul lungo mare di Los Angeles, a tirare granaglie ai gabbiani, sorridente, in attesa del suo Jude, che scese dal taxi correndo ad abbracciarlo forte.
“Ehi… ciao tesoro.”
“Ciao Rob… mi sei mancato…”
“Cucciolo, stai… stai piangendo, è successo qualcosa?”
“No… sono solo terribilmente felice di amarti.” – rise, accarezzandogli il viso innamorato.

Colin trascinó Jared nell’albergo davanti alla clinica, dove Glam stava dormendo sereno, dopo l’intervento al ginocchio.
“Ti dispiace…? Dai bambini torniamo domani…” – lo spinse dentro all’ascensore, il badge infilato nella tasca dei jeans, non smetteva di baciarlo.
Jared provó un vago disagio, pur condividendo l’entusiasmo del compagno.
Una volta entrati nella suite, Farrell se ne andó in bagno – “Voglio rasarmi e docciarmi, faccio schifo…”
“Io la barba la tengo…peró ti posso lavare la schiena?” – lo disse lascivo, umettandosi le labbra.
Colin si appoggió al muro, inclinando la testa da un lato, in quel modo sensuale ed inconfondibile, che azzerava tutte le resistenze di chi gli stava di fronte, lavoro pressoché inutile con Jared, che a quel punto si sentiva pervaso da un’eccitazione debordante.
“Voglio scoparti Jay…”
“Anch’io Cole…”
Si ritrovarono con un grande salto al centro della stanza, avvinghiati e storditi dai sensi.
Jared sentiva i denti, la lingua e la bocca di Colin ovunque. I loro abiti si dissolsero, le loro carezze divennero oscene, i loro singulti strozzati.
Arrivarono al letto, combattendo come due guerrieri nella polvere del deserto, quel ricordo si perdeva nelle loro menti, le risate, lo scalpitare dei cavalli nel corso dell’addestramento, quel periodo li aveva segnati cosí a fondo, diventando indelebile.
Colin giró Jared a pancia in giú, prendendolo selvaggiamente.
“Oddio Cole…!” – gli mancó il fiato, sentendo una fitta lacerargli la schiena, ma Farrell sembrava non sentire altro che un rantolo salirgli dallo stomaco, sempre piú bestiale ed ingordo delle membra pulsanti di Jared, i cui occhi si riempirono ben presto di lacrime, le sue dita ormai doloranti per quanto stringeva il bordo del materasso, sul quale si erano allunganti di traverso.
Flebilmente lo imploró di smettere, ma una debolezza generale gli fece quasi perdere i sensi.
Aveva mangiato pochissimo, dimenticandosi di bere a sufficienza dopo il volo, che lo aveva disidratato.
Le sue iridi erano vitree, seppur cosciente, tutto intorno aveva un suono ovattato, anche le frasi sporche di Colin, che gli venne dentro due volte prima di liberarlo dalla morsa delle sue braccia muscolose.
“Jay…? Jay…!!” – lo voltó, prendendo dell’acqua, che lui bevve tremando.
Colin lo avvolse, dondolandosi con lui, come in una paranoica ninna nanna – “Dio… cosa ho fatto?...”
Jared tossí, cercando di bere il piú possibile, divincolandosi da lui, per aprire la finestra e fare entrare la brezza serale.
Colin rimase frastornato tra le lenzuola devastate da umori e qualche goccia di sangue.
Jared trovó delle provvidenziali bustine di zucchero ed una piccola brocca di miele.
Ne assunse una discreta quantitá, sentendosi subito meglio.
Andó a lavarsi con cura, chiudendosi nel bagno.
Respirava regolarmente adesso, il flusso dell’acqua era pulito, non era accaduto niente di irreparabile.
Si specchió, controllando anche la parte dorsale, notando segni inquietanti del passaggio di Colin.
Non importava, non doveva essere un problema, continuava a ripeterselo, compulsivamente.
Il compagno era uscito sul terrazzo a fumare, nervoso ed in astinenza dai suoi tranquillanti, dimenticati in auto.
Appena lo vide tornare sul letto, si precipitó da lui – “Jay… Jared perdonami… cazzo io… io non so cosa mi sia preso… perdonami… perdonami…”
“Colin non agitarti… sto bene… sto bene, te lo giuro.” – una promessa eccessiva, era evidente che stava mentendo.
Farrell scoppió a piangere, rannicchiandosi sul ventre di Jared, che inizió ad accarezzargli i capelli – “È tutto a posto Cole… sei al sicuro ora…non volevo lasciarti da solo… non volevo che le cose andassero cosí tra noi…” – pianse insieme a lui, liberandosi da un’angoscia recondita.

Con una scusa, dopo essersi sistemato al meglio, Colin scese in garage e prese dal suv le sue pastiglie.
Tre bastavano a fargli riprendere il controllo.
Tornó da Jared, che aveva giá fatto portare la cena.
“Spero tu abbia appetito, hanno esagerato con le porzioni…” – disse con un mezzo sorriso.
Farrell abbassó lo sguardo.
“Ehi Colin…”
“Ed io ho esagerato con te…” – mormoró, controllando cosa ci fosse sotto le cupole in argento, che celavano un pasto vegetariano per Jared ed una semplice bistecca con patate per lui.
“Colin eravamo in due… sú di giri intendo…” – ma lui non sembró accettare quella giustificazione.
“Ieri hai scopato con Glam?” – domandó secco,
“No…”
“E l’altro ieri?”
“Co… cosa stai tentando di fare Colin?” – ribatté indisposto da quell’interrogatorio inaspettato.
“Sí o no Jared?!”
“Sí… Sí cazzo!”
“Lui non é come me, vero…? Lui ti tratta con cura… come se tu fossi di porcellana…” – il suo tono era discontinuo, alienato.
“Lui mi scopa preoccupandosi di non ferirmi…” – lo disse, pentendosene, Colin non aveva bisogno di provocazioni.
Tra loro era scesa come una cortina di tensione ed astio.
Le pupille di Colin tradivano la sua dipendenza, Jared se ne rese conto e si rivestí.
“Dove vai?”
“A casa. Vorrei stare con i nostri figli.”
“Ok, andiamo…” – disse con mestizia, sfuggendo alla vista di Jared il piú possibile da quel momento.


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