giovedì 28 giugno 2012

ONE SHOT - AMERICAN FRIENDS

Pov Jude Law
Londra, luglio 1925



Sono loro, Robert e Jared, i miei amici americani.
Il primo, 47 anni, il secondo quasi 41, mentre io, quest’anno, ne avrò quaranta, quasi coetaneo, in un dicembre molto lontano da questo principio di estate inglese.
Sto salendo sul Treno Azzurro e presto li rivedrò: mi stringerò a loro, entusiasti quanto me di ritagliarsi uno spicchio di cielo, finalmente sereno, distante dalle spire soffocanti, di una società avulsa alle nostre indoli.
Sono un diverso, lo siamo tutti e tre.
Forse questa annuale vacanza sulle coste francesi rappresenta l’unico momento di aggregazione maschile, senza compromessi, bugie, ossessioni.
Ci sentiamo liberi, di vivere e viverci, cercando compagnia nei locali più alternativi del momento, dove gli uomini amano altri uomini, senza mezzi termini, sono stato abbastanza chiaro?
Insegno ad Oxford: un tedio senza fine, lo so, sono patetico e teatrale, Robert me lo dice, quando la prima notte, ogni volta, dormo con lui.
Ci siamo promessi di non innamorarci l’uno dell’altro, tanto meno di Jared, che è semplicemente incantevole quanto sensuale.
Eppure questo giro c’è una novità.
La scopro appena arrivo.
Il quarto uomo.
Americano anche lui?
Niente affatto: è irlandese.
Ce lo ha portato Jared e sembra una faccenda seria.
Lui è impacciato, bellissimo, nelle sue 36, magnifiche, primavere: ha uno studio legale in quel di Dublino, difende i senza tetto, gli operai, ha i calli sui palmi ruvidi, dove Jared, però, cerca costanti carezze.
Colin è capace di fare tutto: sta per l’appunto aggiustando una tapparella di Villa Esmeralda, il nostro rifugio.
Robert, che non sa neppure da che parte brandire un martello, si sforza ad aiutarlo, Jared ride come un bambino, io mi sento inadeguato davanti ai loro sentimenti, all’amore purissimo, che sembra unirli, come due calamite dal segno opposto.
Jared è figlio di nobili austriaci, migrati a New York, sono antiquari, vivono sulla quinta strada, in un attico lussuoso e sterile, lui ce l’ha sempre raccontato come tale.
Robert, infine, ha una piccola azienda di scatolame: è esilarante quando ci mostra i bozzetti delle sue pubblicità, con avvenenti signorine, che espongono i prodotti di indiscutibile qualità: guai a proferire il contrario, ad ogni pasto, mentre degustiamo i fagioli Downey, le lenticchie Downey, la zuppa Downey … Sgrana quegli occhi da cerbiatto impaurito dalla vita, mentre i miei, stanotte, li sento al pari del ghiaccio fuso, forse sarebbe meglio dire acciaio o semplicemente spiegare ed accettare l’inevitabile.
“Io ti amo Robert”
Ecco, la frittata è servita, l’ho detto!
Ci siamo fatti il bagno insieme, lavandoci con cura, ma alla stregua di due adolescenti, tra schiuma e paperelle.
Se ci vedessero i miei studenti …
Avvolti in teli bianchi, dalla vita in giù, ci stiamo studiando, come marziani, ai lati opposti della camera blu, dove Robert sceglie di dormire e ne fa un’alcova piuttosto trafficata nel proseguo del nostro soggiorno.
Incrocio le braccia dietro alla schiena, mi appoggio alla parete ed aspetto.
Cosa esattamente?
Robert deglutisce a vuoto un paio di volte, il suo pomo d’Adamo ballonzola all’interno di quel collo, che vorrei mordere, suggere, invadere di ulteriori apprezzamenti.
Mi sto eccitando, e le mani tornano sul davanti, con il vano tentativo di mascherare la mia condizione imbarazzante.
Un rumore.
Improvviso, netto, insistente.
“Che diavolo è?” – chiede secco Downey.
“Non ne ho idea” – ribatto, acuendo la mia attenzione.
Va e viene, ma ora sembra associarsi ad uno strano verso.
“Gemiti”
“Eh?” – strabuzzo gli occhi.
“Sono gemiti Jude!” – insiste, a bassa voce.
“Perché parliamo piano Rob?”
“Non lo so!” – ringhia, avvicinando il padiglione auricolare sinistro alla tappezzeria.
“E’ la stanza di Jared …”
“E Colin!” – preciso, senza alzare di un’ottava il mio volume.
Robert ridacchia, piegandosi da un lato – “Non ci voleva un granché a capirlo prof!” – sbotta, canzonandomi.
Mi allontano, risentito.
“Jude …!”
“Torno nel mio letto, buonanotte” – ribatto acido.
“Jude! Non sia mai, la nostra tradizione”
“Una tradizione inutile! Visti i risultati!” – mi altero, senza voltarmi.
Robert si avvicina svelto, mi avvolge, infila la mano destra sotto al mio asciugamano ed io, in crisi di ossigeno, emetto un singulto così lascivo, da risvegliare anche il suo di sesso, così aderente ai miei glutei, che quella barriera di spugna è pressoché inutile a smorzarne il vigore.
“Mioddio Rob”
“Ora basta, facciamolo!”
Mi rivolta, afferrandomi per i gomiti, poi il nostro primo vero bacio, profondo, torbido, bagnato.
Per dovere di cronaca, i miei due amici, negli anni precedenti, mi hanno sempre considerato un dandy: insomma una mezza calzetta.
Ora sentivo pulsare un mare di potenzialità, tra le mie cosce, che aprire con ostentazione quelle di Robert, divenne il giusto epilogo a quell’iniziativa di rivelargli i miei autentici sentimenti.

Il suo è un sapore carnale, dopo che si è inginocchiato, per baciarmelo e succhiarmelo, con esperienza e devozione.
Mi sto perdendo nelle sue iridi marrone scuro, le mie dita tra le sue ciocche corvine, ma quando si risolleva, baciandomi, saette di ludibrio mi lacerano la pelle e la spina dorsale.
Lo spingo contro il muro, lo faccio mio, finalmente.
Quel rumore, sembra così simile a quello che stiamo facendo noi e persino i gemiti, paiono accavallarsi, senza più distinzione di tonalità.


“E’ un segno Jude … un’impronta direi …”
“Oh …” – sussurro.
Jared corre per la casa, ridendo – “Anche da me, identica … impronta!”
La carta da parati è segnata.
“Colpa del sudore …” – realizza, timidamente, Colin.
“Gli umori …” – sussurra Robert.
Avvampo.
Jared salta al collo di Colin, lo bacia, avvinghiandosi oscenamente.
Downey ridacchia, io ho la gola secca.


Tempo di andare via …
Sono sempre stati dei ribelli, Rob e Jared.
§ Qui ho amato Jude §
§ Qui ho amato Colin §
L’hanno scritto, dopo un prolisso rimuginare a tavola.

“Cosa farete …?” – domando esitante a Colin.
Lui sorride – “Jared viene a vivere con me, in Irlanda … ce la caveremo. Voi due, invece?”
Abbasso quelli che Rob ha definito “topazi screziati di stelle”: bruciano, imprevisti quanto disdicevoli, non voglio mi vedano così fragile, non loro, solo Robert può farlo … solo Rob …
“Rob …?”
Lui mi accoglie, mi bacia dolcemente.
“Ho molti amici alla New York University … devi soltanto dire di sì, Jude”
Mi scruta ed aspetta.

Ottobre, 1925 New York City

Adoro i tetti di questa città, i grattacieli, il formicolio dei passanti, giù nella via, dove si affaccia l’appartamento che Robert ha comprato per stare con me.
Sembra incredibile, persino assurda, la mia attuale sistemazione, impensabile in quel di Londra.
Certo la discrezione è d’obbligo anche qui, ma almeno, ad ogni risveglio, ritrovare il sorriso di Robert mi infonde quel coraggio, che mi è sempre mancato …
Eppure, ripensandoci, non è poi così vero: se non mi fossi dichiarato, se non avessi fatto io il primo passo.
Lo ribadisco ad ogni festività, a Jared e Colin, quando ci fanno visita, unendosi alla nostra gioia, con la loro, che sembra non esaurirsi mai.
Rob ci osserva, appagato e tranquillo: forse lui l’aveva sempre saputo.
Aveva atteso paziente, colmando nel suo cuore il vuoto lasciato da quel tempo, senza di noi, che non avevamo ancora avuto la forza di vivere, come due inguaribili stupidi.

The End



Nessun commento:

Posta un commento